Lecce- Chiesa di Santa Croce, scoperte: l’ombra di Leonardo da Vinci su Gabriele Riccardo.
La chiesa di Santa Croce a Lecce continua a riservare sorprese. Dopo la recente scoperta di un altare tardo cinquecentesco murato all’interno di una intercapedine in prossimità della facciata principale, ne segue adesso ancora un’altra forse più interessante perché più intimamente legata alla storia progettuale dell’edificio e dell’architetto Gabriele Riccardo (XVI° sec.) indicato dalle fonti storiche come l’ideatore del disegno della chiesa. Per comprendere meglio tutta la vicenda è necessario fare un passo indietro non solo nel senso di qualche anno fa, quando cioè queste ricerche sono state avviate con la collaborazione dell’Arcidiocesi di Lecce e della Prefettura, ma proprio in termini del processo dell’analisi storica. Questa indagine è cominciata, infatti, partendo da una domanda tanto semplice e scontata quanto, da un punto di vista della metodologia, poco o per niente praticata dalla storiografia: la chiesa leccese dei Celestini, tanto importante nel contesto storico e religioso locale, aveva il ‘suo’ campanile ovvero quello risalente al progetto cinquecentesco? E se sì: dove era collocato e come era strutturato? L’attuale torre campanaria, immediatamente a destra della facciata principale, è opera ottocentesca realizzata quando la chiesa fu nuovamente recuperata al culto dopo quella fase di abbandono avvenuta successivamente alla soppressione degli ordini religiosi. Da un punto di vista storiografico un accenno rapido ad un campanile della chiesa lo fa nel 1929 Amilcare Foscarini in una sua nota guida artistica di Lecce. Lo storico segnala però solo: «[…] le basi di una gran torre o campanile che non fu mai costruita» e non dice altro. Tale segnalazione, a cominciare dalla stessa posizione della struttura architettonica, appare però generica e da qui bisognerebbe pertanto partire. Gli elementi di quanto sembra essere un campanile, simile per dimensioni della base a quello seicentesco della Cattedrale leccese, sono collocati a destra del presbiterio; attualmente lo spazio interno al piano terreno di questo presumibile campanile è destinato a sagrestia. La chiesa di Santa Croce, come è facile verificare, nel corso degli anni è stata oggetto di numerosissimi studi; è apparso perciò sorprendente constatare che anche nelle più autorevoli pubblicazioni (una per tutte: quella edita in occasione dei restauri della facciata principale condotti negli anni Ottanta del secolo scorso) non sia stata rilevata e approfondita ulteriormente non solo la questione della torre ma soprattutto l’esistenza di una scala in particolare. E non si tratta neanche di una scala qualsiasi. Nella torre campanaria di questa chiesa leccese di scala infatti non ne esisteva una sola ma addirittura due costruite in compatta pietra leccese e disposte in modo singolare (ed il piacere della scoperta è proprio qui). Esse, in effetti, attraverso un rilievo architettonico appena conclusosi con il quale si può confermare quanto di questa ricerca in parte già anticipato tempo addietro, sono collocate l’una nell’altra e così tanto da definire questo insieme da loro composto un vero e proprio intreccio. Le due scale, oggi interrotte ad una certa altezza da pareti murate, hanno una larghezza, lungo il percorso, pressoché costante e pari a circa cm. 87.5. I muri portanti sono quelli perimetrali con in più uno centrale la cui larghezza è pari a circa cm. 51.5. Singole, piccole finestre strombate, oggi murate, sono in corrispondenza di alcuni dei pianerottoli. L’aspetto interessante di tali scale è relativo prima di tutto al loro ‘funzionamento’. Quest’ultimo è simile a quello che, ad esempio, caratterizza il noto pozzo di San Patrizio ad Orvieto costruito tra il 1527 e il 1537 da Antonio da Sangallo il Giovane (in questo caso però si hanno due rampe elicoidali intrecciate). Per trovare qualcosa di più vicino all’esempio leccese bisogna attingere ad un disegno che Leonardo da Vinci realizzò sul finire del Quattrocento. In quest’ultimo caso si hanno rampe lineari, esattamente come a Lecce, le quali sono disposte però attorno ad un nucleo murario molto più ampio (nella torre dei Celestini, come già qui osservato, si ha invece un solo muro centrale). Quale la ragione di questo schema compositivo e soprattutto funzionale tutt’altro che scontato ed immediato? Nel caso di Leonardo da Vinci gli studiosi hanno interpretato quel disegno come lo studio per una torre militare in cui l’intreccio delle scale consentiva ai soldati che ascendevano la struttura di non incontrarsi mai con quelli che discendevano la medesima; quello schema funzionale quindi migliorava l’efficienza della torre. In sostanza nel progetto di Leonardo da Vinci, così come in quello di Gabriele Riccardo, viene adottato un principio, ancora oggi seguito nella progettazione delle autostrade, ad esempio, in virtù del quale, detto in estrema sintesi, i flussi, di auto in un caso, di soldati nell’altro, non entrano mai in conflitto perché il flusso gli uni non interseca mai quello degli altri. Non è noto cosa sia alla base del progetto di questa scala a Lecce, certo è che essa potrebbe avere un altro punto di contatto con l’idea sottesa nei disegni leonardeschi ovvero proprio la necessità militare di cui si diceva. La torre dei Celestini sorgeva infatti proprio a ridosso delle mura difensive della città salentina (chiesa, convento e fortificazioni urbane erano in costruzione negli stessi anni) e come tale non è da escludere che potesse assolvere anche ad una funzione strategica. A voler ampliare poi lo spettro dell’indagine verrebbe da chiamare questa struttura “la scala delle meraviglie” e ciò non tanto sicuramente per la qualità architettonica in senso stretto che essa esprime e neanche per l’idea sottesa nella sua progettazione, elemento quest’ultimo che obbliga però in ogni caso a guardare in modo diverso, più ampio, all’architetto, Gabriele Riccardo, che ne ideò il disegno. Se dovessimo infatti guardare a questa struttura architettonica da un punto di vista più ‘umano’, parafrasando magari quanto è in un celebre dipinto di Magritte, si potrebbe pensare alla sua ‘meraviglia’ come a ciò che scaturisce dal fatto che ‘queste non sono due scale’, o meglio ‘non è solo una scala articolata’ ma anche una sorta di libro di bordo, diario narrante su cui è registrato il passaggio di chi ha popolato la storia del convento nel corso degli anni sia che fosse uno degli abitanti istituzionali o, più in generale, anche solo uno dei suoi temporanei frequentatori. Come dimenticare, ad esempio, la firma (sembra addirittura l’unico vero e proprio autografo in corsivo oggi noto) di uno dei maggiori scultori del barocco pugliese, Giulio Cesare Penna, che su una delle pareti, lungo le scale, incise: «Io mastro Cesare Penna 1631»; immediatamente sotto si legge inoltre «Io Gio Filippo Giordano» (un collaboratore del primo?). Difficile non ricordare inoltre quell’anonima mano che, sul pianerottolo in prossimità del quale oggi è uno degli organi della chiesa, incise in terra il tracciato di un gioco, il filetto; e poi le firme, le croci, sempre incise, oppure la rappresentazione di un campanile, questa volta solo disegnato; e i profili umani e poi ancora le frasi come: «Penza a morir / io vissi e poi morsi»; e le date, tante, tantissime. E fra queste ultime quella che riporta inciso un millesimo, forse «1542», che potrebbe obbligare, seppure in via molto cautelativa, a riconsiderare addirittura quel 1549 ritenuto fino ad oggi come l’anno di inizio della costruzione della chiesa.
Fabio A. Grasso