PUGLIA: L’ INVIDIA CHE CHIUDE GLI OCCHI E NASCONDE LA REALTÀ
Il caso dei due giovani massacrati a Lecce poche settimane fa conduce a urgenti e importanti riflessioni
Dante Alighieri pone gli invidiosi nel Purgatorio, al canto XIII della Divina Commedia. Lo stesso poeta si commuove vedendo le loro anime consumate, ombre lacere con indosso una ruvida veste, gli occhi cuciti da fil di ferro, appoggiate alla parete di una montagna, piangendo e gemendo, sull’orlo del burrone.
Soffermati e guarda negli occhi l’invidioso, non sa nascondere la propria invidia. Il suo sguardo è bieco, le sue parole sono accondiscendenti e sibilline, ti sorride, di quel sorrido freddo a denti scoperti che non allieta il cuore, anzi lo fa rabbrividire.
Superbia, invidia e avarizia sono dall’alba dei tempi le tre fiamme che hanno acceso i cuori degli uomini.
Cos’è l’invidia?
L’invidia è ambiguamente confusa con la gelosia, il rancore, l’avidità ma in realtà è un’emozione diversificata che colpisce il “subalterno” per status o per possibilità che ambisce a migliorare ma incanala questo suo sentimento nel modo errato.
È un sentimento presente a tutte le latitudini, è qualcosa di simile ad un dolore fisico, germina da un sentimento di profonda frustrazione di chi non è appagato dal proprio status e che invece di cambiare in meglio, mette in atto strategie infide, facendo regredire il sentimento al suo stato primordiale, ad uno stato di ostilità, odio intenso, avversione e aggressività esplicita con annessa visione distorta della realtà.
Aristotele affermava: “Noi invidiamo coloro il cui successo riecheggia come un rimprovero fatto a noi”.
In una società che si basa su caste formate, in una società non meritocratica, l’invidia di chi è inferiore e di chi teme la competizione fa la parte del leone nella prassi sociale.
Antonio De Marco, 21 anni, di Casarano (Le), studente di Scienze infermieristiche all’ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, ha portato la Puglia sulle pagine di cronaca nazionale, facendola apparire una terra complessa, che sta cercando un presente con difficoltà. Si tratta del terzo dei più tragici e cruenti casi pugliesi di cronaca nera italiana, catapultando la Nazione nei meandri del crimine e della mente umana, dopo il delitto di Sara Scazzi
e di Trifone e Teresa
. Tre delitti che hanno un comune denominatore: l’invidia. Giovani vite stroncate dall’esplosione di rabbia dei loro amici e parenti.
Che ruolo gioca l’invidia nella generazione del crimine estremo?
Essa vi ha una grossa parte, da protagonista o da capo-protagonista, è il motore principale. A monte di molti omicidi sta proprio l’invidia covata contro chi è migliore o può essere tale.
Antonio De Marco ha nascosto la maschera sotto altre fogge per poter agire indisturbato, premeditando meticolosamente l’omicidio. È lui che ha deciso il destino di Daniele de Santis ed Eleonora Manta, massacrandoli lo scorso 21 settembre rispettivamente con 15 e 30 coltellate mentre stavano cenando. Ha deciso per loro, ha deciso che il migliore non dovesse vincere ma piuttosto dovesse essere posto con ogni mezzo illecito nella situazione di perdere, a suo vantaggio, solo perché felice.
L’invidia covata ha escluso della bontà da parte sua, nonostante le urla strazianti dei due ragazzi che lo imploravano di smettere. Il suo pugnale da caccia ha inferto notevoli colpi, fino a rubare loro il bene più importante: la vita.
L’uccisione lo avrebbe posto e lo pone in un livello di superiorità per così dire insuperabile, definitivo, immutabile.
L’invidia ha sempre accompagnato l’uomo. Basti pensare a Caino e Abele per scolpire la sofferenza per la buona fortuna e felicità altrui.
Pensiamo all’antico dualismo a sfondo mitico, ovvero la storia di Eros e Thanatos come proiezione dell’immaginario distruttivo insito nel soggetto invidioso su ciò che l’altro ha e che egli non possiede.
L’antico dualismo porta sempre con un Eros un Thanatos e viceversa. Infatti l’ambivalenza sta nel fatto che oltre a voler distruggere ciò che l’altro possiede, l’invidioso lo desidera anche ossia vorrebbe avere ciò che lui non ha e che riconosce essere di appartenenza di un altro.
La contrapposizione tra la pulsione di vita ha portato con sé la pulsione di morte.
Se solo il sentimento dell’invidia si fosse coniugato nella forza di Thanatos verso Eros, si sarebbe rivelato un sentimento non ostile ma un interesse nel creare uno scopo, una meta da raggiungere, sia essa che fosse una qualità, un oggetto, una relazione, un’ambizione.
Viviamo in una società di identità fragilissime, bisognerebbe ritirare la proiezione sull’altro attraverso il recupero della propria identità invece la vita in lui aveva visto già un perdente e lo aveva messo all’angolo.
Adesso non ha altra via di fuga se non le porte del carcere dove non gli resterà che pregare Dio in attesa della giustizia terrena anche se l’invidia contiene già la sua pena.
“Se l’ umiltà è un potente antidoto alla superbia, la carità potrà purificarci dall’invidia”.
Francesca Branà