La vendemmia fatta con le scale
La pervele o vite potata a pergola era una delle piante più amate dagli abitanti delle antiche contrade ginosine nonché pugliesi, con la quale già i Romani realizzavano la pergula vitis umbriferae, ossia un balcone di ombrosa vite.
Questa meravigliosa pianta rampicante era graditissima sia per l’ombra che per i frutti.
In ogni nostra contrada era usata per creare straordinari giardini pensili che ornavano gli ingressi delle bianche case e facendola arrivare sui terrazzi, si realizzava la freskera, all’ombra della quale, durante la controra, le donne si sedevano a ricamare o a fare la calza.
Quelle bellissime piante eliofile, dal portamento sinuoso, si facevano arrampicare sulla facciata della casa ed i tralci erano orientati tra la porta d’ingresso e il sovrastante finestrino, creando un ombroso riparo agli usci.
La verde cascata dei pampini, a fine settembre, cominciava a caricarsi delle spettacolari sfumature della tavolozza dei colori autunnali e le foglie ormai brulle si adagiavano sulle strade brulicanti di galline, morendo sgretolate dal loro beccare e dal calpestio dei frettolosi passi dei viandanti.
Sui tralci brillavano alla luce del sole i turgidi grappoli divenuti appariscenti e dolcissimi.
Le mamme, con l’aiuto di una scala, raccoglievano gli invitanti grappoli che addolcivano la gola dei loro bambini i quali, impazientemente, avevano già mangiato quella ancora acerba, raggiunta con saltelli o salendo sul dorso del monello compagno di giochi.
Lo spettacolo del foliage dei melograni, dei fichi, delle pergole, con i suoi intensi colori accendeva la gravina di Ginosa e le sue vecchiare (orti-giardino circondati da muretti a secco), conferendole un fascino che regalava allo spirito di ognuno un benessere inspiegabile.
Ginosa è stata da sempre terra ricca di vigneti che producono buon vino.
Nella Cultura orale si racconta di tempi lontani in cui si vendemmiava salendo sulle scale, mentre la memoria dei vigneti coltivati in quella che è l’agorà ginosina è continuamente ravvivata da una espressione che si pronuncia quando si ironizza sulla veneranda età di qualcuno: “Jè acchessi vecchie ca s’arrecorde le viggne de mienze a chiazze” (È così vecchio che si ricorda i vigneti che erano piantati dove oggi c’è la piazza).
La mitologia ci racconta che Dioniso o Bacco piantò la vite ed insegnò agli uomini la viticoltura; per certo gli Etruschi coltivavano la vite a partire dalla vitis vinifera silvestris, una vite selvatica autoctona, già nel XII sec. a.C.
La coltivazione era ispirata al modello di crescita che gli Etruschi osservavano nei loro territori, cioè arrampicata agli alberi e non potata.
I Romani continuarono a coltivarla allo stesso modo: associata anzi maritata all’olmo o al fico.
Da Catone a Varrone, da Virgilio a Plinio il Vecchio, i riferimenti e le citazioni di questa modalità di coltivazione sono molteplici.
Molti artisti, in ogni epoca, hanno immortalato nelle loro opere l’incredibile e ingegnosa coltivazione della vite maritata che evidenzia la piantumazione vicinissima (40-45 cm) delle due specie da cui si originavano chiome arboree strabilianti con grappoli d’uva pendenti, che conferivano ai paesaggi bucolici molto vari e suggestivi un alone di mistero.
Con potature adeguate, infatti, gli olmi diventavano il sostegno della vite che, essendo rampicante, si avvolgeva ai suoi alti rami, ancorandosi con i viticci. Lunghi tralci intrecciati erano poi orientati verso gli alberi attigui, formando i gioiosi festoni su cui germogliavano pampini e grappoli dorati o violacei.
Alte scale poggiate ai rami sostenevano i vendemmiatori che depositavano il prezioso raccolto in cesti legati a corde, tramite le quali erano calati a terra per essere svuotati.
Plinio il Vecchio racconta che in caso di infortunio mortale conseguente a caduta accidentale dalle scale, al malcapitato vendemmiatore veniva pagato il funerale e la sepoltura.
Quello spettacolo della natura, vestita a festa, quel tripudio di colori hanno inorgoglito ed incantato per secoli gli uomini che si ritenevano gli artefici di tanta bellezza.
Incanto al quale non fu insensibile W. Goethe, in viaggio in Campania nel 1787, che annotò con stupore la bellezza dei paesaggi creati dalle coltivazioni della vite maritata.
In Catullo e Ovidio la coltivazione della vite associata all’olmo diventa la metafora poetica di amore indissolubile e suadente esempio di seduzione: “… se l’olmo se ne stesse lì celibe, senza tralci, non avrebbe nulla di attraente se non le proprie fronde. La vite che si abbandona abbracciata all’olmo, se non gli fosse unita giacerebbe per terra afflosciata …” (“Corteggiamento di Pomona da parte di Vertumno” – Metamorfosi XIV, Ovidio).
Ma è nel v. 54 del carme 62, epitalamio o canto nunziale dei Carmina Docta del Liber di Catullo, che compare la definizione “marita” che sarà poi estesa nel linguaggio comune: “(vitis) ulmo coniuncta marita” ovvero la vite andata in sposa ad un olmo.
Il linguaggio allegorico non ha ignorato questo connubio e rappresenta la Benevolenza e l’Amicizia come una donna vestita di bianco che abbraccia il tronco dell’olmo e vite intrecciati.
La coltivazione della vite associata all’olmo, al pioppo, al fico o al ciliegio continua ad essere definita “vite maritata” ed avviene ancora in piccole realtà rurali, dove questa millenaria tradizione viene tutelata e salvaguardata.
Scientificamente è provato che solo tra l’olmo e la vite si instaura una simbiosi che coinvolge gli apparati radicali determinando una produzione virtuosa.
Un riferimento al maestoso albero non manca negli stradari pugliesi, così come un’antica e lunga strada di Ginosa, oggi ridimensionata all’attuale, portava la denominazione di via Olmo, probabilmente riferita alla presenza di questi alberi in quella contrada.
Presenza legata alla pratica della coltivazione della vite maritata giunta dalla Campania in cui era molto diffusa e protetta dai Borbone?
Nel nostro meridione convissero due modalità di coltivazione della vite: quella risalente agli etruschi e quella importata dalla tradizione greca che era caratterizzata da vitigni orientali bassi, potati di frequente, e legati a paletti secchi.
La preferenza e diffusione delle due forme di coltivazione era legata alla condizione climatica ed alla umidità del terreno.
Il vigneto basso alla greca, la cui pianta era definita vinea, si sviluppò in zone aride; la vite maritata, alta e molto rigogliosa, indicata come arbustum era coltivata in terreni umidi. Quest’ultima era generalmente posta al confine dell’appezzamento in cui venivano effettuate coltivazioni promiscue oppure lungo canali, pendii o argini di corsi d’acqua.
Con la spremitura dell’uva maritata si produceva il vino secco; il vino aromatico era ottenuto dalle uve dei vigneti bassi coltivati alla greca.
Fra qualche giorno inizierà l’allegra vendemmia ed i vignaioli hanno già ripulito e preparato le cantine, per la produzione e conservazione del nuovo vino, nelle quali ai dolia e capasoni dei nostri antenati si sono sostituiti prima le botti di rovere ed oggi i moderni e freddi contenitori di acciaio.
Ma un rito antico, derivante dalle Meditrinalia, feste romane della lavorazione del vino celebrate l’undici ottobre, si è tramandato per secoli.
Poiché il vino era considerato una medicina, i romani recitavano questa formula quando lo degustavano durante la festa: “Vetus-novus vinum bibo, veteri-novo vino morbo medeor” (Bevo vino vecchio e nuovo, curo un male con vino vecchio e nuovo).
I nostri nonni hanno trasformato questo augurio in una modalità per migliorare o “guarire” il vino vecchio che si era alterato e che non veniva più bevuto.
Mescolando un po’ di vino nuovo, non fermentato, con quello vecchio si migliorava il gusto del vino spunto, facendolo ridiventare buono al palato.
“U miere nuove a sanà u miere vecchie!” (Il vino nuovo deve guarire il vino vecchio!) si pronunciava durante l’operazione.
Ovviamente rimaneva spasmodica l’attesa di San Martino, quando “ogni mosto diventa vino”.
Antonietta Buonora