Cucchi, l’avvocato Pini: «Dati inidonei a sostenere l’accusa. Il Gup avrebbe dovuto pronunciare sentenza di non luogo a procedere»
A cura di Elena Ricci
C’è chi, nel rinvio a giudizio dei cinque Carabinieri negli ambiti dell’inchiesta bis sulla morte di Stefano Cucchi, già riscatta un senso di giustizia come se tutto fosse compiuto o meglio, deciso.
C’è chi poi, invece, sulla scorta di atti processuali e di indagine (migliaia di pagine), esperienza, serietà e soprattutto rispetto di quelle che sono le parti in un processo, fa chiarezza su quella che ieri è stata decisione del GUP Cinzia Parasporo.
Per l’ennesima volta partiamo dal principio. Stefano Cucchi, 31 anni, tossicodipendente, muore nell’ottobre del 2009 presso il reparto di medicina protetta dell’ospedale “Pertini” di Roma, una settimana dopo essere stato arrestato dai Carabinieri della Stazione Roma Appia, comandata dal Maresciallo Roberto Mandolini, poiché colto in flagrante durante attività di spaccio di sostanze stupefacenti.
Stefano Cucchi viene dunque arrestato la sera del 15 ottobre del 2009 e condotto in caserma per le formalità di rito. A questo passaggio segue la perquisizione domiciliare (Stefano dichiarerà di essere residente presso casa dei suoi genitori, ma solo dopo la morte si scoprirà che abitava in un appartamento in zona Morena, dove in seguito suo padre Giovanni troverà un ingente quantitativo di sostanza stupefacente) e il trasporto presso le celle di sicurezza di Tor Sapienza dove trascorrerà la notte, e dove fu accompagnato da Vincenzo Nicolardi e un altro Maresciallo dell’Arma all’epoca da poco in servizio a Roma.
La mattina seguente all’arresto, Stefano Cucchi viene processato per direttissima e gli viene convalidato l’arresto. In quella sede, diverse testimonianze, tra cui lo stesso padre, l’avvocato d’ufficio, e lo stesso giudice dell’udienza di convalida, sostengono che il Cucchi non presetava segni e/o atteggiamenti che facessero pensare ad un pestaggio subito.
Cucchi viene dunque preso in consegna dagli agenti di Polizia Penitenziaria, prime vittime, insieme ai medici del Pertini, di un lungo processo (mediatico anche per loro, lo ricordiamo), conclusosi con l’assoluzione.
Assolti medici e agenti di Polizia Penitenziaria, è la volta dei Carabinieri e della cosiddetta inchiesta bis, dove incredibilmente, le versioni precedentemente sostenute dalla parte civile (si veda ricorso in Cassazione dell’avvocato di Ilaria Cucchi, Fabio Anselmo), si annullano e diventano accusa nei confronti dei cinque militari, tre dei quali (Tedesco, D’Alessandro e Di Bernardo) avrebbero, come scrive l’accusa “pestato violentemente Stefano Cucchi a calci e pugni, causandone la morte”. Ed ecco che, da una prima accusa di lesioni personali aggravate dallo stato di detenzione, si passa alla richiesta di rinvio a giudizio per il reato di omicidio preterintenzionale. Richiesta accolta dalla GUP Cinzia Parasporo nella giornata di ieri, e che vedrà i militari alla sbarra il prossimo 13 ottobre nell’aula bunker di Rebibbia, dinanzi alla terza corte d’assise.
Uno strano processo. Lo abbiamo sempre definito così, e questo rinvio a giudizio ce lo conferma, in quanto i reati contestati dalla pubblica accusa, nella fattispecie dell’omicidio preterintenzionale, sono in netto contrasto con gli esiti peritali, che hanno costituito l’assunzione vera e propria di prova, in fase di incidente probatorio. A tal proposito, abbiamo chiesto un parere tecnico giuridico all’avvocato Eugenio Pini del Foro di Roma, difensore del Vicebrigadiere Francesco Tedesco.
«Ritengo la decisione del GUP di Roma non in linea con i principi giuridici su cui dovrebbe basarsi la decisione dell’udienza preliminare» dice l’avvocato Pini, in quanto a suo parere, sussistevano i requisiti decisori per una sentenza di non luogo a procedere, pur essendo la deliberazione conclusiva dell’udienza preliminare espressione di un canone decisorio di natura meramente processuale, non parametrato su un apprezzamento di colpevolezza, ma su una prognosi inerente alla sufficienza di elementi per sostenere l’accusa nel dibattimento.
«Non credo vi siano, anche con particolare riferimento alla contestazione di omicidio preterintenzionale, elementi per sostenere l’accusa nel dibattimento – continua – Proprio con riferimento a questo grave reato non posso non osservare che, come noto, l’elemento oggettivo della fattispecie di omicidio preterintenzionale è costituito dal fatto di chi, ponendo in essere atti diretti unicamente a percuotere una persona o a provocarle una lesione personale, ne cagioni la morte, la quale, quindi, rappresenta un quid pluris rispetto all’evento effettivamente perseguito. Dichiarando immediatamente l’estraneità del mio assistito rispetto alle condotte di lesioni; preciso, in aggiunta, che tale fattispecie richiede quale elemento tipico, sotto il profilo oggettivo del reato, un rapporto di causalità tra la condotta diretta a percuotere o a cagionare una lesione e l’evento verificatosi».
Ecco la parola magica… Nesso causale. E proprio a proposito di nesso causale, o rapporto di causalità come lo ha definito Pini, quello tra percosse e evento morte, non c’è. E sempre secondo quanto sostiene l’avvocato Pini, nel caso di specie, requisito fondamentale ai fini della configurabilità del reato contestato (omicidio preterintenzionale), è il nesso causale tra la condotta di lesioni, ascritta ai militari, e la morte di Stefano Cucchi.
Ecco, questo nesso causale che avrebbe posto le basi per la configurabilità di questo grave reato, è stato escluso dalla perizia del prof. Francesco Introna con il suo collegio peritale. Nella perizia, depositata il 3 ottobre del 2016, dice l’avvocato Pini «si ritiene di poter affermare con decisione che non sia stata individuata una certa causa di morte del Cucchi e, conseguentemente, non sia possibile accertare il nesso causale tra la condotta contestata agli odierni imputati ed il decesso del medesimo – e continua – In particolare, pur considerando la morte di Cucchi improvvisa ed inaspettata, i periti hanno affermato che i dati a loro disposizione “non consentono di formulare certezze sulla(e) causa(e) di morte”».
Dunque, secondo l’avvocato Pini, già questo dato incontrovertibile non consente di poter ragionevolmente vagliare la configurabilità -nel caso di specie- della fattispecie di omicidio preterintenzionale, essendo in radice esclusa la possibilità di determinare, né in questa fase, né nella successiva fase dibattimentale, la causa del decesso e, conseguentemente, di accertare la sussistenza del nesso causale tra l’evento morte e la condotta di lesioni addebitata ai Carabinieri.
«Per questo motivo – conclude Pini– affermo che, a fronte di una risposta chiara sulla impossibilità scientifica di poter indicare il meccanismo letifero fornita dagli esperti nominati dal GIP, il GUP innanzi a questi dati scientifici inequivocabilmente inidonei a sostenere l’accusa in giudizio, avrebbe dovuto pronunciare una sentenza di non luogo a procedere».
Insomma… riassumendo in due righe, diremmo che non è dato sapere come sia morto, ma è stato ucciso.
Elena Ricci