“I bambini maltrattati a scuola” – Genesi di una violenza contagiosa
(A cura di Simone Calienno)
“Bisogna spegnere la violenza piuttosto che l’incendio”, disse saggiamente Eraclito solo qualche anno fa. Voglio iniziare a parlarvi della violenza servendomi di questo monito del pensatore greco, quasi rubandolo dal 500 a.C. per poi inserirlo specularmente nel contesto storico-sociale nel quale siamo capitati un po’ tutti per caso. Ma ora non mi sembra il momento di avviare un’indagine antropologica sul perché e sul percome siamo qui adesso, quando potremmo benissimo essere da un’altra parte. Il punto è che quando si parla di violenza, si parla di un argomento rovinato in modo irrecuperabile. La violenza è argomento da bar, e probabilmente anche ai tempi di Eraclito era così… Magari non nel momento del simposio, questo è poco ma sicuro! Parliamo di violenza negli stadi, violenza sessuale, violenza sulle donne, stalking, mobbing… Tante parole per descrivere un solo fenomeno: quel momento nel quale una persona (fisica o giuridica), impone ad un’altra la propria volontà mediante una forza, che essa sia fisica o psicologica. Lo schema sarebbe approssimativamente questo: volontà-forza-violenza. Ed internet ne è pieno, i telegiornali ne sono pregni, i quotidiani verranno stampati finché ci sarà violenza, intendendo essa nella sua accezione più larga (violenza può essere anche un Governo che pecchi di responsività e riflessività normativa). Addirittura Rai News ha deciso di non mostrare più i video inerenti le esecuzioni dell’ISIS, preferendo bloccare la cosiddetta “macchina della propaganda”. Una decisione difficile ma encomiabile per chi fa televisione; una decisione che può comportare una diminuzione dell’audience, ed è contemporaneamente testimone di un atto di fede: quella fede che dovrebbe spingere ogni giornalista a remare contro il terrorismo psicologico, a far vedere solo quello che è necessario, raccontando a voce il “superfluo”. Ma nonostante ciò, esistono quei tipi di violenza che ci fanno venire il mal di pancia solo a pensarli: si tratta di quegli atti contro le persone “deboli”, ossia gli anziani, i disabili, ed i bambini. Il nostro stomaco non può rimanere al suo posto quando sappiamo che taluni s’approfittano dell’altrui incapacità di reazione, e qui a Taranto – non troppi giorni fa – siamo stati spettatori per la seconda volta nell’arco di un breve lasso di tempo, di uno scenario poco nobilitante: gli agenti della Squadra Mobile della Questura di Taranto hanno colto in flagranza di reato ed arrestato T. A., maestra sessantaquattrenne nella scuola dell’infanzia. L’accusa è inequivocabile: maltrattamenti aggravati nei confronti degli alunni. A quanto sembra la T. A. avrebbe assunto atteggiamenti vessatori ai danni dei bambini, tanto da provocare un cambiamento di condotta di questi ultimi negli ambienti domestici, ed il rifiuto da parte degli stessi di andare a scuola. Adesso non voglio starmene qui a tirar su la milionesima novella su quanto sia brutta la violenza sui bambini, o su tutto quello che populisticamente viene detto e fatto da chi crede nella giustizia fai da te, dal momento in cui viene pubblicata una notizia di cronaca così brutta. Ecco, potrei stare ore a pensare ad un termine più eloquente da sostituire ad una parola basica come “brutta”, ma credo che a volte sia necessario esemplificare, piuttosto che preferire il rigurgito emotivo alla sobria e scevra critica r(e)azionale a proposito di attenuanti e ragionevoli ragioni. Insomma, per dirlo alla leggera, non mi va di utilizzare queste righe come sfogatoio contro i mille mali del mondo o le dieci piaghe d’Egitto, ma vorrei permettermi d’applicare il pensiero eracliteo alla fattispecie in esame, dove l’episodio della maestra presumibilmente violenta è l’incendio, e la violenza è… Cos’è la violenza? Perché c’è la violenza? Cosa porterebbe un’insegnante di buona reputazione a commettere tali atti? Unitariamente, potrei utilizzare questo quesito: cosa c’è alla base dell’azione della T. A.? Ma siamo sempre lì: questo mondo va così veloce che non abbiamo il tempo di porci quesiti e di darci risposte, quando – magari – pensare potrebbe essere un’attività non solo culturalmente e socialmente edificante, ma addirittura gratuita. Approfittando del fatto che non v’è ancora una tassa sul pensiero, riesco ad immaginare la matrice che possa spingere l’insospettabile T. A. a commettere la siffatta azione spregevole e del tutto ingiustificabile: la scuola italiana è allo sbando più totale. Docenti e personale ATA si sentono soli, abbandonati – anzi – dimenticati. O forse no, perché lo Stato pare ricordarsi di queste due categorie solo quando ci sono da applicare tagli, o fantasiose riforme che riducono le nostre scuole in parcheggi umani. L’unica cosa che lo Stato dà in più ai suoi dipendenti, sono gli anni per raggiungere l’età pensionabile! Con tutto il rispetto per gli ultrasessantenni, ma una maestra a sessantaquattro anni, cos’altro può dare sul lavoro? A sessantaquattro anni cominci ad avvertire altre necessità: subentrano le pillole per gli acciacchi, non sopporti le urla, hai bisogno di riposarti più spesso, e vuoi che il volume della radio sia basso, sempre che tu non abbia fatto un patto col diavolo come Mick Jagger (ndr M. J., 71, è il cantante dei Rolling Stones). Lungi da me dal voler vittimizzare la maestra presunta colpevole; voglio solo dire che c’era da aspettarselo. È come mandare una bella ragazza in tacchi a spillo e minigonna in un centro di riabilitazione per maniaci sessuali seriali (luogo che forse dovrebbe esserci in una buona Italia). “Ma lei deve potersi vestire come le pare” – mi direte. “Certo che deve vestirsi come le pare” – vi rispondo io. Ma ci sono luoghi e luoghi dove andare in tacchi a spillo e minigonna, perché se la ragazza in questione dovesse essere stuprata da conclamati maniaci sessuali seriali che passeggiano nel loro bel centro di riabilitazione, urlare di stupore parrebbe alquanto ipocrita. Ed ipocriti siamo noi che ci scandalizziamo quando sappiamo che una maestra “impazzisce” – concedetemi il termine non di certo esauriente – anziché domandarci il perché delle sue azioni. La verità (o almeno la mia verità), è che la violenza proviene dallo Stato-apparato, e comportamenti come quelli della T. A., sono naturali epiloghi di storie iniziate male e finite peggio. Uno Stato che si dimentica dei suoi cittadini e delle loro esigenze, uno Stato che si arroga di poter esprimere il volere popolare in una presunta democrazia demagogica, e che in quanto tale si assurge ad unica ed emblematica autrice di norme. Uno Stato che lavora per sé. Uno Stato al collasso. Uno Stato che agisce con prepotenza, generando contagiosa violenza. “Ma si poteva stare a casa!” – ci viene da dire col nostro maccheronico uso dell’imperfetto. E se da un lato è vero che avrebbe potuto rinunciare al lavoro dal momento in cui sentisse di non reggere più lo stress psicofisico – e sempre ipotizzando che la mia analisi sia fondata – chiunque di noi sa bene che andremmo ad invadere una sfera estremamente delicata oltre che privata. Questi non sono fatti nostri: limitiamoci al rapporto Stato-cittadino. Ed a peggiorare la già amareggiante cornice, c’è un altro problema: le relazioni scuola-famiglia. Bisognerebbe domandarsi se la scuola soddisfi le esigenze informative delle famiglie, ma forse – preminentemente – sarebbe il caso di chiedersi se queste ultime siano consapevoli del fatto che l’edificio scolastico non è solo quella “cosa” di cemento con dentro i propri figli seduti al banco od innanzi ad un computer. Il dialogo che deve esserci fra scuola e famiglia – se da un lato è istituzionale – dall’altro è puramente sentimentale: se un genitore si ricorda di avere un figlio soltanto il giorno delle pagelle – rinfacciando alle maestre il voto basso in una materia – forse c’è qualcosa che non va. Da un po’ di tempo gira sul social network una vignetta dove si vede la scuola di trent’anni fa, dove i genitori chiedevano con tono minaccioso al figlio “cos’è questa nota?”, ed appresso, la scuola dei giorni nostri, dove gli stessi genitori – col medesimo tono – pronunciano tale quesito verso la maestra. A me ha fatto sorridere parecchio, perché rappresenta il barbaro regresso che ha intrapreso la famiglia del Duemila qui in Italia. Mantenendoci ben lontani da qualunque forma di violenza – ribadisco, ancor più aberrante ed a maggior ragione sanzionabile se intrapresa ai danni degli infanti – magari il cosiddetto “pugno di ferro” da parte di un insegnante, spesso non è volto a danneggiare la persona dell’alunno, ma a tirar fuori il meglio di lui. Chi ha fatto sport a livello agonistico può capire bene questo discorso: un coach severo può spronare il suo giocatore con linguaggio colorito, o ridicolizzandolo innanzi ai suoi compagni di squadra, e se quell’atleta vale qualcosa, non c’è modo migliore di tirar fuori la sua personalità. È un discorso che viene spiegato molto meglio nel film “Whiplash”, neovincitore di tre Premi Oscar, dove J. K. Simmons è nei panni di un severo – forse troppo severo – insegnante di musica, il quale riesce ad estrapolare dal giovane protagonista tutto il suo talento nascosto come batterista, esacerbandolo e vessandolo di continuo, sino a provocargli direttamente ed indirettamente dei traumi fisici e psichici. È un film, si sa, ma spesso ciò che vediamo sul grande schermo non è così lontano dalla realtà. In fondo “educare” non vuol dire guidare nella crescita intellettuale e morale? Abituare, esercitare, riflettere, sviluppare, affinare, erudire, formare, guidare, istruire, plasmare, allevare, ammaestrare, allenare, coltivare, migliorare… Ecco, quest’acquazzone di verbi all’infinito non voglio contestualizzarlo nel solo ambiente scolastico, perché sarei davvero felice di vedere uno Stato-apparato, un Governo capace di avviare un processo di educazione popolare tale da possedere sempre meno irredentisti; tale da abbassare radicalmente l’età pensionabile di un lavoratore, evitando di fargli mostrare quella parte d’istinto animalesco che è in tutti noi, ma che da buoni cittadini dobbiamo saper acquietare per la corretta convivenza civica. Lo Stato non può continuare a tenere gli occhi chiusi: un genitore deve poter lasciare suo figlio a scuola sapendo che la maestra “ci sta con la testa”, e suo figlio sarà educato ed accudito secondo i canoni più largamente riconosciuti. La scuola deve essere un luogo sicuro ed inespugnabile. Ed allora, che quest’acquazzone spenga la violenza e non l’incendio. Che quest’acquazzone rinfreschi la testa a chi potrebbe fare e nulla fa, ed a chi continua a fossilizzarsi sul fatterello di cronaca, ignorando totalmente il macroproblema alla base di tutto. Eraclito aveva proprio ragione! Per quanto riguarda le ragioni della maestra – invece – sarà la giustizia italiana a decidere, e conoscendo i nostri tempi… Spero di essere ancora vivo quel giorno, per potervi raccontare com’è andata a finire questa strana storia dell’inumana violenza umana.