Il futuro sarà con sempre meno toghe? La fuga degli avvocati a caccia del posto fisso

Il futuro sarà con sempre meno toghe? La fuga degli avvocati a caccia del posto fisso
Cicerone nel De Oratore riservava il titolo di giureconsulto, a “colui che è esperto delle leggi e delle consuetudini su cui si poggiano i cittadini di uno Stato, colui che sa dare pareri in materia di diritto, trattare cause e redigere schemi negoziali“.
Advocati e patroni erano figure stimate della società dei Quiriti ma, a causa della decadenza e della corruzione dell’ordinamento romano tra il II e III secolo d.C., divennero alcuni dei soggetti preferiti dalle opere satiriche.
Una nobile e bella professione ma stressante, caratterizzata da una «concorrenza spietata», dove i professionisti vengono scelti «in base a una sorta di gara al ribasso», in cui vince l’avvocato che costa meno.
Esercitare la professione, tra calo di fatturati e riorganizzazione del lavoro, è sempre più complicato.
Tanti giovani meritevoli, che, talvolta, pure avendone il titolo, non si iscrivono per problematiche economiche o per i costi fissi che non riescono ad affrontare.
Molti avvocati stanno ricevendo chiamate a seguito del superamento di concorsi pubblici e dello scorrimento delle graduatorie degli idonei.
È doloroso vedere che tanti lasciano la libera professione, ma consola verificare come costoro possano proseguire la loro attività di giuristi al servizio del pubblico interesse generale.
Sono sparite quelle resse di studenti che sognano di indossare la toga e pronunciare le arringhe davanti alla corte.
E’ cominciata la grande fuga dalla professione di avvocato, senza contare le difficoltà della complessa e farraginosa macchina della giustizia. Un fenomeno in costante crescita per una professione che paga il prezzo di non aver superato il gender pay gap.

Negli ultimi tempi tantissimi hanno dismesso la toga, non affollano più le aule d’udienza, sono aumentate in maniera vertiginosa le cancellazioni in virtù dei numerosi concorsi nella Pubblica Amministrazione, molti giovani e 50enni cercano una stabilizzazione certa. E’ proprio la questione dei redditi, l’aspetto dolente della fuga dall’avvocatura.
Analizzando i redditi dell’avvocatura, notiamo che la professione rimane sostanzialmente divisa a metà tra gli avvocati “ricchi” e i “nuovi poveri”.
Nell’anno 2023, infatti, solo circa 17.000 avvocati hanno dichiarato un reddito superiore a 100.000 euro, mentre oltre 100.000 avvocati hanno prodotto un reddito nettamente inferiore ai 20.000 euro annui.
L’esame di abilitazione forense oggi viene definito un “rito ordalico”, mentre il tirocinio non è riconosciuto come attività professionale.
La tecnologia, inoltre, incombe come una minaccia, rendendo obsoleta la figura del praticante e del professionista con un unico committente.
I praticanti, spesso, non ricevono alcun compenso per il loro lavoro, e si ritrovano a svolgere mansioni estranee alla professione forense. Il loro valore economico viene considerato nullo, e si arriva addirittura a sostenere che l’avvocato dovrebbe essere pagato per accoglierli in studio.
Avvocati che devono sostenere le spese della professione e i costi della vita con meno di mille euro al mese lordi: con cifre del genere, è normale che a un certo punto si tenda a migrare verso altre spiagge, tentando di vincere un concorso pubblico, che assicura stipendio certo e minori responsabilità dal punto di vista professionale.

I giovani avvocati, nonostante il loro spirito resiliente, a livello economico non riescono a produrre dei redditi dignitosi, che consentano loro di mantenere contemporaneamente la professione, loro stessi e una famiglia.
La situazione diventa ancora più pesante se l’avvocato è donna e decide di fare figli: una scelta del genere pone la professionista fuori dal mercato per un periodo di tempo di almeno un anno, con notevoli difficoltà a ricollocarsi nel proprio ruolo pre-gravidanza.
Questo rischio, unito agli alti costi della professione e ai guadagni nettamente inferiori da cui la professionista parte, portano spesso le più giovani all’enorme sacrificio di dover scegliere tra la carriera e la famiglia.
Il posto fisso nella Pubblica Amministrazione garantisce uno stipendio che può arrivare anche a 1.800 euro al mese che di questi tempi per un avvocato non sono pochi.
È evidente che la situazione è insostenibile. Serve un cambiamento radicale che valorizzi il ruolo dei praticanti, offrendo loro tutele adeguate e una formazione di qualità.
È necessario ripensare l’esame di abilitazione e il sistema di tirocinio, adeguandoli alle esigenze del mercato del lavoro e alle nuove tecnologie.
Solo con un impegno comune da parte di istituzioni, avvocati e degli stessi praticanti si potrà dare vita a prospettive migliori per la professione forense italiana.