La lezione dell’Ulivo
“Patrimonio dell’umanità” dell’Unesco, questo riconoscimento dovrebbe bastare per comprendere quale sia l’importanza di questi alberi per l’intero territorio salentino.
La presenza dell’Ulivo è nota in questi luoghi sin da periodi antichissimi, probabilmente importato dalla Grecia, permea subito l’identità di questa regione e diventa, grazie anche alle tipiche terre rosse, assoluto protagonista dei paesaggi.
Già nel secondo secolo a.C., Micandro di Colofone, nelle sue Metamorfosi scrive: «Si favoleggia che nel paese dei Messapi presso le cosiddette “Rocce Sacre” fossero apparse un giorno delle ninfe che danzavano e che i figli dei Messapi, abbandonate le loro greggi per andare a guardare, avessero detto che sapevano danzare meglio. Queste parole punsero sul vivo le ninfe e si fece una gara per stabilire chi sapesse meglio danzare. I fanciulli, non rendendosi conto di gareggiare con esseri divini, danzarono come se stessero misurandosi con delle coetanee di stirpe mortale. Il loro modo di danzare era quello, rozzo, proprio dei pastori; quello delle ninfe, invece, fu di una bellezza suprema. Esse trionfarono dunque sui fanciulli nella danza e rivolte ad essi dissero: “Giovani dissennati, avete voluto gareggiare con le ninfe e ora che siete stati vinti ne pagherete il fio”. E i fanciulli si trasformarono in alberi, nel luogo steso in cui stavano, presso il santuario delle ninfe».
I Messapi che si fanno alberi di Ulivo, in una metamorfosi, che rende pienamente l’identificazione ed il rapporto che le genti salentine, hanno sempre avuto con questa pianta.
Nel meraviglioso mosaico pavimentale della Cattedrale di Otranto, viene rappresentato in relazione alla fine del Diluvio Universale, come simbolo di pace ritrovata. Sempre Otranto, che in antichità è stato uno dei maggiori porti per il commercio di olio, lega lo stemma della città all’olio d’ulivo. In araldica il serpente che cinge il faro pare avesse consumato l’olio da cui si alimentava la fiamma.
Anche Gallipoli sin dal ‘600 vanta una tradizione olearia che la rese famosa nel mondo. L’olio prodotto qui, veniva ritenuto il migliore del Mediterraneo, perché particolarmente trasparente e luminoso. L’olio infatti aveva infiniti usi a quel tempo, ed in particolare quello gallipolino veniva utilizzato come olio da lampada per l’illuminazione. I bastimenti che attraccavano al porto, poi lo trasportavano fino a Genova o Venezia e da li, l’olio giungeva sino in America o in Russia.
E’ sempre stato utilizzato anche con finalità mediche lenitive, con la preparazione di unguenti utilizzati anche per massaggiare gli atleti sin dall’età romana. Ampiamente utilizzato anche per l’igiene corporea, o come cosmetico per pelle e capelli.
Nel territorio di Lecce e provincia siamo arrivati a contare fino a dieci milioni di alberi d’Ulivo, le distese sono immense, e questa pianta domina il territorio in ogni suo angolo, dando vita ad un’attività olearia di piccole e grandi attività. Oltre a frantoi e cooperative con finalità commerciali, è tipica l’attività strettamente familiare della raccolta delle olive, in piccoli uliveti di proprietà, al fine di produrre il proprio olio da utilizzare in casa. Alcune piante vivono in Salento da secoli, è il caso di un Ulivo, con buona probabilità il più vecchio d’Italia , che si trova a Borgagne, frazione del comune di Melendugno. Questa pianta si trova qui da prima che venissero edificati il Colosseo o il Partenone, per intenderci. Ma ce ne sono molte altre come “La Regina”, come viene simpaticamente chiamata, una pianta di Ulivo autoctona con circonferenza di 14 metri, ed età stimata intorno ai 1400 anni. La si può ammirare a Strudà.
Ogliarola Leccese, questa la varietà tipica del Salento, che un tempo si poteva ammirare in distese a perdita d’occhio lungo la discesa che porta da Maglie ad Otranto, un mare verde che sembrava tuffarsi nel Canale d’Otranto.
Oggi purtroppo, di questi paesaggi, rimane solo un malinconico ricordo. Sull’onda dell’emergenza Xylella è stato scritto e detto molto, anche se non sempre è stato possibile trasmettere la necessità di risolvere il fenomeno con urgenza.
Una veloce panoramica a freddo, in una carrellata di fatti e circostanze anche se forse arcinote, potrà aiutarci a meglio focalizzare i contorni di questa infausta calamità.
Non è questa la sede adatta per discutere dei ritardi connessi all’emergenza, ma gli studi parlano di una propagazione del batterio killer cominciata tra il 2005 ed il 2008, trasportato da una pianta di caffè infetta importata dal Centro America. Il batterio in seguito mutato avrebbe attaccato e sterminato, facendoli totalmente o parzialmente seccare, milioni di ulivi. Le prime segnalazioni da parte degli agricoltori arrivano nel 2010 (dato coerente con la presunta introduzione del batterio), ma le autorità competenti intervengono solo nel 2013 con i primi provvedimenti. In seguito sono arrivate le zone di contenimento, e le famigerate “X” segnate con lo spray sulle piante da estirpare.
Sono state provate cure con apparecchi ad ultrasuoni, potature estreme e vari tipi di concimazione, spesso in maniera empirica data la mancanza di studi a supporto.
In mancanza di cure efficaci e con un’epidemia già così diffusa, la Sputacchina (insetto vettore del batterio) ha potuto mietere vittime praticamente indisturbata.
Il procedimento a carico delle autorità competenti aperto nel 2015 per “Molteplici irregolarità” e “Negligenza” nell’affrontare l’emergenza, si è chiuso nel 2019 con l’archiviazione. Nonostante il proverbiale malcostume italico, che nella fattispecie, il giudice per le indagini preliminari Alcide Maritati tratteggia come: “la preponderanza dell’interesse economico, ovvero la prospettiva di ottenere finanziamenti a beneficio esclusivo dell’Università di Bari, rispetto alle finalità scientifica”.
Va però sottolineato che le motivazioni dell’archiviazione sono di assoluto buon senso, anche per i non addetti ai lavori: “Pare impossibile trovare la prova certa che, osservate le corrette regole di comportamento, l’evento non si sarebbe comunque realizzato”. E’ stata una calamità del tutto imprevista, e nessuno a quel tempo aveva i mezzi per fronteggiarla.
Ad oggi esistono diverse vie per la cura e la bonificazione degli ulivi che hanno contratto il batterio della Xylella, a volte utilizzate in combinazione. La nebulizzazione di un prodotto a base di zinco e rame, utilizzabile anche in agricoltura biologica, che è potenzialmente in grado di raggiungere il batterio all’interno della pianta e contrastarne gli effetti. Una maggiore frequenza nella potatura della pianta: ogni due anziché ogni quattro o cinque anni, pare aver dato, nel breve periodo, risultati confortanti. Alcuni degli olivicoltori che hanno seguito questi protocolli nei loro uliveti sono tornati a pieno regime di produzione, ma va detto che la situazione è lungi dall’essere risolta, e che la gran parte degli uliveti versa ancora in situazioni disastrose e spesso irrisolvibili.
A chi oggi si affaccia nel Salento per la prima volta, è doveroso spiegare le origini di uno spettacolo così triste, l’impotenza di fronte ad un evento catastrofico, ma anche il desiderio di rinascita che si può vedere nella tenacia, quando si sperimentano delle nuove cure, e nella pazienza, quando si sceglie di partire con dei reimpianti.
Il terribile spettacolo di intere distese di alberi ormai morti, ed il senso di vuoto lasciato dalle eradicazioni, ha restituito un’amara lezione. Comprendere la nostra identità è il modo migliore per salvaguardare il nostro futuro.
“Se qualcuno avrà sradicato o avrà abbattuto un ulivo,
sia di proprietà dello Stato sia di proprietà privata, sarà
giudicato dal tribunale, e se sarà riconosciuto colpevole
verrà punito con la pena di morte”.
(Aristotele, Costituzione degli Ateniesi, 330-322 a.C.)
Carlo Sindaco
Credits:
Marco Mariano – foto
belsalento.altervista.org
rivistafrutticoltura.edagricole.it
xilellareport.it