L’àrdie
La tessitura, arte femminile antichissima, vide incarnare nella mortale Aracne la maestria e la perfezione assoluta. Tanta bravura suscitò l’invidia della dea Atena, inventrice del telaio e dell’arte della tessitura, che dopo aver perso la sfida con Aracne per la creazione dell’arazzo più bello, la trasformò in un ragno, condannandola così a tessere per l’eternità.
“Sua maestà” l’àrdie o telaio in legno di ulivo era presente in molte case delle nostre arcavole che tramandavano alle loro figlie i segreti e l’arte della tessitura e molte giovani ragazze, desiderose di apprendere e migliorarsi, andavano da esperte maestre che insegnavano il mestiere di tessitrice.
Le fibre come il lino, la canapa e l’ortica venivano utilizzate per realizzare i tessuti più pregiati. Dagli steli di ortica, opportunamente trattati, si ricavava una fibra lucida e morbida che era usata per realizzare tessuti molto fini.
La lana e la ginestra invece erano le fibre per realizzare tessuti più semplici.
Prima dell’inizio della tessitura vera e propria c’era un ingegnoso lavoro di allestimento di fili sul telaio e la preparazione dei lizzi (i licci) con i quali si organizzava il tipo di tessuto che poteva essere operato o liscio. Curiosità: la tela che Penelope tesseva di giorno era sicuramente liscia poiché veniva disfatta solo in una notte!
I licci erano collegati tramite cordicine ai pedali del telaio, sui quali si posavano i piedi della tessitrice che ne azionava il loro spostamento.
Con l’aiuto del laniature in ferro, si riempiva di filato u cannilicchie, ossia la spoletta-cannolicchio ottenuta da pezzi di canna di vario calibro in funzione dello spessore del filo da arrotolare che poteva essere di lana, di trama, di seta, ecc…
Con la mano destra si faceva girare u laniature in ferro e con la sinistra si orientava il filo che si avvolgeva al cannolicchio che veniva posto nell’incavatura della sciascèttela in legno, la spola che creava la trama scorrendo tra i fili di sopra e sotto, cioè il passo dell’ordito. I fili della trama venivano compattati tra loro da u péttene, il pettine del telaio, che rendeva il tessuto più fitto e robusto.
Dopo numerose ore di lavoro trascorse davanti al telaio, autentiche meraviglie prendevano vita davanti agli occhi delle nostre nonne così come di tutte le abili tessitrici.
Nella raffinata produzione artigianale del Regno di Napoli era radicato il commercio di tessuti in fibra di ginestra mista a canapa per confezionare materassi; ma la conoscenza e l’utilizzo della fibra povera della ginestra arrivò a Ginosa in particolar modo con i contadini e i pastori transumanti della Calabria.
I contadini e le contadine giungevano nelle contrade pugliesi per i lavori stagionali della raccolta delle olive o la falciatura del grano ed indossavano soprattutto abiti realizzati con tessuti di ginestra. A fine campagna lavorativa, rientrando nei loro paesi natii, portavano via vere e proprie sciàrcene, fascine di rami di ginestra che abbondavano nelle zone impervie ed incolte.
La fibra ricavata dalla ginestra (Spartium Junceum) era molto utilizzata dalle antiche civiltà mediterranee come i Fenici, i Cartaginesi, i Greci per realizzare le corde e le vele delle imbarcazioni oltre alle reti da pesca, perché resistenti all’azione corrosiva della salsedine.
Dalla sorprendente ginestra, la bellissima pianta mediterranea che tappezza con le sue gialle e profumate infiorescenze le nostre colline e argini, dopo una particolare procedura si ottiene una fibra robusta con la quale il popolo indigente realizzava coperte, materassi, capi di abbigliamento, asciugamani, tovaglie, bisacce e sacchi.
Una fibra oggi rivalutata e apprezzata tanto da essere ancora prodotta artigianalmente seguendo le antiche modalità.
Infatti proprio nel pieno dell’estate, tra luglio ed agosto, inizia la raccolta dei rami di ginestra sfiorita che devono essere disidratati ma non secchi.
I rami legati in mazzetti si fanno bollire in capienti recipienti con la cenere per intenerire le parti più dure. Quando i rami di ginestra diventano gialli, si mettono in acqua fredda per farli macerare e dopo qualche giorno si passa alla fase della battitura. Si ottiene così la fibra che dopo il lavaggio ed asciugatura viene cardata e ripulita. Con il fuso si realizza il filo bianco che con l’aiuto dell’arcolaio è raccolto in matassa e poi in gomitolo. La matassa può essere tinta per realizzare capi colorati.
I tessuti anticamente realizzati erano inizialmente ruvidi e acquisivano la morbidezza con i lavaggi.
Le persone più indigenti ed i contadini vestivano sempre gli stessi abiti ottenuti dalla fibra delle ginestre poiché queste assorbivano il sudore nella stagione estiva e durante l’inverno proteggevano dal freddo.
Per questa loro abitudine fu coniata l’espressione: Il popolo non cambia abiti con il cambiare delle stagioni!
Con le ristrettezze economiche determinate dalla seconda guerra mondiale, la carenza di materiali e le sanzioni che impedivano l’importazione della iuta, si determinò una riscoperta e riutilizzo della fibra di ginestra in tutta l’Italia meridionale. Nello stesso periodo si recuperava il filato di trama dai calzettoni ormai lisi per tessere tovaglie e lenzuola dalle tipiche righe colorate, che ancora oggi sono conservati nei cassetti delle nostre case.
Antonietta Buonora