Taranto – Ilva e decreti: così la salute dei tarantini viene derogata
TARANTO – E’ stato confermato, nella serata di giovedì 16 aprile, la positività all’infezione covid-19, coronavirus, dell’operaio Arcelor che nei giorni scorsi aveva accusato alcuni sintomi e sottoposto a due tamponi risultati negativi. La conferma del caso covid (terzo caso registrato in Ilva) da parte della Asl, riaccende un dibattito, mai interrotto nel territorio ionico, sul tema salute-lavoro.
Saracinesche abbassate, attività all’aperto vietate: bar, ristoranti, negozi e attività di produzione-distribuzione-vendita fermi, se non indispensabili a garantire beni di prima necessità e di prima utilità.
E’ così che l’Italia si blocca, si ferma, inginocchiata dinnanzi ad un virus che le impone una sfida più grande di lei: l’11 marzo tutta la nazione ha seguito la diretta in cui il premier Conte estendeva la “zona rossa” all’intero paese. Una misura necessaria – così l’ha definita il Presidente del Consiglio dei Ministri, Giuseppe Conte, annunciando il DPCM – per poter tornare, il prima possibile, alla vita “normale”.
Ma c’è un’eccezione in questa situazione che ha già dell’eccezionale: il siderurgico a Taranto, l’industria strategica, che non si ferma e non si fa scalfire neanche da una pandemia che ha fatto fermare intere città, megalopoli, nazioni, paesi.
Decreto prefettizio
Il DPCM dell’11 marzo consente ad Arcelor di proseguire l’attività, ma spettava al Prefetto, Demetrio Martino, l’ultima parola sulla questione. A lui, infatti, l’onere di decidere se ArcelorMittal potesse proseguire l’attività. Nei giorni precedenti al decreto prefettizio del 26 marzo – che stabilirà la prosecuzione dell’attività senza variazioni dell’assetto produttivo, con sospensione della sola produzione a fini commerciali, fino al 3 aprile – le OO.SS. avevano programmato uno sciopero nazionale e chiesto al Prefetto di porre in regime di comandata lo stabilimento.
Le unità produttive previste dal decreto del Prefetto erano di 3500 lavoratori diretti e 2000 dell’appalto, per la sola attività di mantenimento e salvaguardia degli impianti e sicurezza.
A seguito della decisione del Prefetto, i vertici aziendali Arcelor, ricorrono alla cassa integrazione ordinaria “causa Covid” per 8173 lavoratori (a partire dal 30 marzo e per 9 settimane) e l’Amministratore delegato, Lucia Morselli, scrive una lettera al premier Conte in cui minaccia: “Se l’ordinanza del Prefetto di Taranto, che vieta la produzione ai fini commerciali, dovesse essere prorogata, saremo costretti a prendere in considerazione tutte le misure per salvaguardare la nostra società, compreso l’avvio delle operazioni di messa in stand-by dell’intera area a caldo dello stabilimento di Taranto, nonché la collocazione in Cig di tutta la forza lavoro il cui impiego non è necessario per svolgere tali operazioni”.
Il 3 aprile il Prefetto deciderà di rimuovere i vincoli alla produzione per fini commerciali, decidendo di non prorogare i termini del decreto: <<Suonano come una presa in giro “il monitoraggio ed il controllo sulle condizioni di impiego del personale” così come anche la “costante e totale applicazione delle misure di prevenzione da rischio sanitario” – si legge nella nota del 6 aprile di Franco Rizzo, coordinatore provinciale di USB Taranto – Questa per noi non è altro che una farsa. Il Governo centrale la deve smettere con gli annunci attraverso i quali parla di buoni propositi che puntualmente cadono nel vuoto. Dovrebbe invece svelare in maniera palese che si è schierata vergognosamente dalla parte della multinazionale a scapito della salute di migliaia di persone.>>
Casi covid in ArcelorMittal
Distanziamento sociale, DPI, sicurezza, sono lo snodo centrale degli incontri tra organizzazioni sindacali e dirigenza aziendale, per scongiurare focolai di contagio all’interno della fabbrica. In una nota del 3 aprile 2020, Cgil, Cisl e Uil, scrivono: “E’ emerso come sussista una sostanziale inosservanza delle norme specifiche in materia di distanze di sicurezza, di dotazione dei Dpi ai lavoratori e di sanificazione degli ambienti. La situazione registra punte di maggiore preoccupazione nella parte relativa alle aziende dell’indotto, dove le carenze sono ancora più evidenti, i dispositivi forniti non sono omologati. Refettori, spogliatoi, trasporti e portinerie aziendali sono stati descritti come i luoghi in cui tali elementi si rilevano in maniera conclamata.”
Il primo caso di positività al covid-19 si registra il 28 marzo, quando un operaio del reparto di Pgt durante il turno di lavoro pomeridiano, accusa i primi malori e viene portato in infermeria: la temperatura corporea è di 37.9 e l’azienda decide di farlo tornare a casa. Nelle ore successive si mette in contatto con i sanitari del 118 e dopo diversi colloqui telefonici che rivelano la possibilità concreta di un’infezione covid, viene prelevato il giorno dopo (29 marzo), dalla propria abitazione dall’ambulanza e, sottoposto a tampone (il cui esito sarà positivo) nel Centro Covid “Moscati”.
Dimesso il 9 aprile, dopo le cure e la negatività riscontrata per ben due volte dai test, il caso di Fabio non è isolato: un altro operaio, residente a Massafra e collega nel reparto Pgt, è risultato positivo al coronavirus. Per lui, asintomatico, si era proceduto alla quarantena domiciliare.
Infine il terzo caso confermato il 16 aprile – risultato negativo a due tamponi e infine positivo al terzo – nel reparto di Acciaieria 2, di un operaio che 12 aprile aveva accusato malore e febbre ed era stato trasportato dal 118 all’ospedale Moscati. L’uomo si trovava in quarantena già dall’11 marzo.
In queste settimane di emergenza sanitaria nazionale si acutizza maggiormente la necessità di una tutela per il diritto alla salute, considerando, poi, che l’indotto Ilva conta migliaia di operai provenienti da altre province e che il rischio di focolai è una minaccia sempre più concreta.
Ma a Taranto, città martoriata da decreti, il virus che fa più paura e miete migliaia di vittime, non è il covid-19 e, soprattutto, non sarà così facile da debellare.