Taranto – “L’altra città”: un giorno da detenuto.
TARANTO – La Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto, ospita attualmente 550 detenuti a fronte di una struttura con una capienza regolamentare di 306. Il personale preposto alla sorveglianza è invece di 114 unità. Sovraffollamento, carenza di personale sanitario e di sicurezza. Assenza di personale specializzato nel trattamento dei detenuti tossicodipendenti e con patologie psichiatriche ( 234 i soggetti tossicodipendenti). Lo standard di sanità penitenziaria è dunque insufficiente e, soprattutto, non adeguato alle peculiarità delle problematiche sanitarie della popolazione penitenziaria. Sono queste alcune delle principali criticità del carcere.
Il progetto prende forma e nasce dunque dalla volontà di avvicinare i cittadini alla realtà vissuta dai detenuti, con tutte le riflessioni che conseguono dalla simulazione che il fruitore dell’opera/carcere sperimenta durante il percorso.
“Faccio momentaneamente rinuncia alla mia libertà, con la sola certezza che la stessa mi sarà resa a conclusione del percorso da intraprendere, senza la garanzia però, che la libertà di cui precedentemente in possesso potrà dirsi la stessa”.
Questa è la premessa che ogni visitatore/attore, nel percorso individuale e solitario (con la sola guida e direzione degli agenti di Polizia Penitenziaria istruiti ad hoc per drammatizzare e aumentare il pathos della visita) accetta come conditio sine qua non, del proprio “pellegrinaggio” laico all’interno della Casa Circondariale “Carmelo Magli” di Taranto.
“L’altra città. Un percorso partecipativo e interattivo nella realtà carceraria italiana” è un progetto artistico – ora alla sua seconda edizione – che non ha precedenti in Italia. Curato dal teorico e critico d’arte Achille Bonito Oliva e da Giovanni Lamarca – illuminato comandante del reparto di Polizia Penitenziaria di Taranto – e realizzato con la partecipazione dei detenuti, del personale in servizio e in pensione (Anppe), degli artisti, esperti e scrittori, tra i quali Giulio De Mitri, artista e docente; Roberto Lacarbonara, giornalista e critico; Anna Paola Lacatena, sociologa e scrittrice; Giovanni Guarino, attore e animatore e Salvatore Montesardo, ex dirigente scolastico e volontario nel Carcere “C. Magli” di Taranto. Progetto diventato concreto grazie al contributo dall’Associazione “Noi e Voi”, operante da anni all’interno della Casa Circondariale di Taranto.
Il carcere assume le sembianze di un’opera artistica, per mezzo di una installazione site specific realizzata nella sezione femminile e creata dalle 20 detenute.
Attraverso questa installazione, il singolo fruitore dell’esperienza, non più come spettatore – quindi come altro dall’opera – ma come essenziale meccanismo di attivazione dell’opera stessa, per mezzo della propria esperienza reale, vivida, ma calata in una enfatizzazione artistica fatta di simulacri simbolici che danno potenza al messaggio dell’opera, vivrà tutte le fasi della detenzione, spogliandosi della propria libertà e vestendosi – per tutta la durata del percorso – del fardello del detenuto.
L’opera, realizzata nelle quattro celle che compongono l’esperienza, contestualizzate in una dimensione di surreale e amplificata che non ha come fine appagare il voyeurismo nella vita del detenuto – per questa ragione gli ambienti delle celle sono realizzati con una estremizzazione artistica – ma di eliminare definitivamente le barriere con la realtà del carcere. Per scoprirne dunque l’umanità e cogliere la gamma di emozioni, gli aspetti psicologici e spirituali che caratterizzano il percorso di cambiamento che ogni detenuto compie durante la propria esperienza in carcere.
Per aumentare la comprensione e l’efficacia di questa esperienza, il fruitore compie il percorso singolarmente. La partecipazione attiva degli agenti di Polizia Penitenziaria, che sono i soli che possono interagire e che si vedranno per tutta la durata del percorso, agevolano l’immedesimazione nella realtà artefatta .
Una tenda nera nasconde il corridoio. Una volta scostata – sempre seguendo l’agente – si svela agli occhi un tappeto di plastica lungo una quindicina di metri, fatto delle foto di familiari dei detenuti. Tappeto che non può non essere calpestato se si vuole raggiungere l’ufficio matricola, che servirà al riconoscimento come detenuti e darà l’avvio alla simulazione. Sul soffitto, appese a lunghi fili che letteralmente toccano il viso, tante foto ( sono più di 100) di alcuni dei detenuti – sono 550 attualmente nel Carcere di Taranto – che hanno scelto di mostrarsi all’altra città. Si è faccia a faccia con le loro foto. Guardarle. Necessariamente guardarle, per avanzare.
Il percorso si compone della registrazione nell’ufficio matricola e foto segnaletica e presa delle impronte digitali. Gli agenti fanno camminare lungo una linea gialla e, di volta in volta, si viene chiusi in ognuna delle 4 celle: Cella nuovi arrivi, Cella ordinaria,Cella di isolamento e Cella dimittendi.
La prima, la cella nuovi arrivi, è quella che segna appunto l’arrivo del detenuto. L’agente chiude la porta. Il rumore della chiave nella serratura e i suoi passi sono l’unico suono udibile nel silenzio del corridoio. Un letto, la luce che entra dalla finestrella, qualche bicchiere di plastica e il bagno. Le pareti trasudano di scritte delle detenute. Pensieri a chi arriverà lì dopo di loro. Scritte di rimorso, di assenze, di turbamenti, di voglia di riscatto: “Non farti travolgere dall’oscurità, ma segui la luce della speranza”, una delle tante frasi che riempiono le pareti.
Il rumore della chiave dona libertà momentanea. Stando sempre dietro la linea gialla si segue l’agente e subito si entra in un’altra cella: la cella ordinaria.
La porta si richiude. La tv è accesa, il letto già allestito. Il testo del codice penitenziario e del codice penale, sul tavolino – questo è lo spazio in cui il detenuto vivrà stabilmente, durante il quale dovrà affrontare il processo – un posacenere ricavato da pacchetti di sigarette, bottiglie tagliate diventa una zuccheriera. Le pareti tappezzate da estratti di sentenze, ordinanze cautelari, modulistica interna.
Qualche minuto ancora e si verrà condotti in quella che sicuramente rappresenta il momento oscuro nella vita di un detenuto: la cella di isolamento.
Pareti dipinte di nero, una luce fioca, giallognola. L’estremizzazione artistica dell’esperienza di isolamento, rende la suggestione così reale da far vacillare il fruitore, che pur ne conosce la finzione. E’ palpabile la sofferenza della pena di isolamento. Qui i detenuti scontano la grave sanzione disciplinare dell’esclusione dalle attività di vita comune, per un tempo massimo di 15 giorni. Sono passati 3 minuti. La chiave gira nella serratura e si riguadagna la libertà momentanea.
Si giunge così alla quarta e ultima cella: cella dimittendi.
Una luce a led blu illumina la stanza, pareti decorate da farfalle di carta e farfalle, ancora farfalle, pendono dal soffitto. Tante rose. Tutte create dalle detenute, ad occupare il letto e i ripiani. E infine una clessidra, che l’agente prima di chiudere la cella capovolge, per far scorrer in giù la sabbia. E’ il tempo che sta per finire. Quel tempo che separa dalla libertà, da quella libertà che per il detenuto non è più concettuale e lontana, ma realtà che si fa concreta. La cella dimittendi è l’ultima fase di detenzione in carcere. Un percorso di metamorfosi che, in progressione, attraverso il lavoro di rieducazione e, con le attività messe in atto dalla struttura penitenziaria, gli restituisce la sua dignità e lo prepara per il reinserimento nella società civile.
La cella dimittendi sancisce la libertà del visitatore/attore, che come ultimo step torna nell’ufficio matricola per ritirare il “foglio di primo ingresso” e ripercorre, con nuova consapevolezza, il tappeto di documenti e la selva di volti dei detenuti. Riacquisita la libertà, persa per qualche ora, come scrive nel catalogo che racconta il processo creativo e il progetto “L’altra città” la sociologa Anna Paola Lacatena: “Guardo verso l’alto. Il cielo. Lo stesso che le donne detenute non potranno che guardare a frammenti. Sono bellissimi i colori del tramonto. Si chiarificano in me le motivazioni di quel sollievo”.
(L’articolo 27 comma 3 della Carta Costituzionale recita: le pene non possono consistere
in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione
del condannato.)
( Per le foto si ringrazia il Comandante di Polizia Penitenziaria Giovanni Lamarca)