Il ritrovamento di Stefano Mele, di soli due anni e otto mesi, ucciso a fine giugno del 2010 ha fatto piangere tutti. I medici legali, i magistrati di turno, i Carabinieri giunti in quella che doveva essere una casa di vacanza e che invece quel giorno, poco dopo le 12.00 è diventata la casa dell’orrore in quel di Torre San Giovanni, Ugento.
Stefano è stato ucciso dal suo papà, Gianpiero, all’epoca dei fatti 25enne e neolaureato in economia. Dopo una lite con la sua compagna Angelica, di due anni più giovane, l’uomo che doveva recarsi in spiaggia con il piccolo, ha compiuto il terribile gesto tentando in seguito di togliersi la vita. L’uomo ha impiccato il piccolo con una corda e poi lo ha sgozzato con un taglierino con il quale ha poi cercato di tagliarsi le vene. Fu lui stesso ad avvisare la compagna, che compreso il pericolo avvisa suo padre, un maresciallo della Guardia di Finanza, 118 e Carabinieri. Quello che si presenta davanti agli occhi degli inquirenti è l’orrore puro. Stefano è senza vita, su un lettino, coperto di sangue.
La vicenda giudiziaria dopo 7 anni si è conclusa ieri. Giampiero Mele, oggi 32enne, è stato condannato in via definitiva a 30 anni di reclusione. La quinta sezione penale della Corte di Cassazione ha pronunciato il suo verdetto per omicidio volontario aggravato dai futili motivi e dalla crudeltà. Sono stati respinti i ricorsi presentati dai suoi legali, con cui si chiedeva l’annullamento della sentenza della Corte d’Appello di Taranto, pronunciata nel giugno 2016.
La Corte d’Appello di Lecce ora dovrà esprimersi su quale misura detentiva applicare, essendo scaduto nel mese di aprile di quest’anno il termine di custodia cautelare. Durante il lungo processo, gli psichiatri forensi nominati dal Gip, esclusero turbe psichiche, ritenendo il Mele consapevole del gesto che aveva compiuto. Un gesto che agli inquirenti è sembrato bene architettato, considerato che l’uomo quella mattina, dopo aver preso con se il piccolo per portarlo in spiaggia, si fermò in una ferramenta dove acquistò un taglierino e della corda in nylon, come testimoniato anche dalle telecamere di videosorveglianza dell’attività.
Il venticinquenne all’epoca dunque, secondo l’accusa, avrebbe agito con coscienza e con lucidità poiché non accettava la separazione dalla compagna Angelica.