The Hateful Eight, la Legge Quentin Tarantino
Dopo una lunga attesa, dopo che la sceneggiatura è stata diffusa online anzitempo, dopo la riscrittura del finale, ecco che finalmente The Hateful Eight è nelle sale, con tutte le polemiche, le critiche, positive e negative, che circondano ogni progetto del regista Quentin Tarantino. Si tratta di un personaggio che sa esattamente cosa vuole comunicare e soprattutto come intende farlo, crogiolandosi nella sua grandissima capacità tecnica e nel suo modo di fare cinema, suo e di nessun altro, che non scende a compromessi. The Hateful Eight è il secondo film western realizzato da Tarantino dopo Django Unchained, è un progetto ambizioso, girato in pellicola Ultra Panavision 70 mm, un tipo di pellicola che non veniva impiegato da diversi decenni. Secondo la tradizione del regista, anche in questo caso il film è diviso in capitoli, per la precisione sei, con un insieme di personaggi che esagerano all’inverosimile gli stereotipi del genere da cui partono, interpretati da un nutrito gruppo di attori di spessore (molti “fedelissimi” di Tarantino) come Samuel L. Jackson, Kurt Russell, Jennifer Jason Leigh, Tim Roth. Ma in realtà cos’è The Hateful Eight? È una creatura, una creazione complessa realizzata con una tecnica ed una maestria nella regia a dir poco eccezionali. Ma è ben lontano dall’essere un film perfetto, almeno non lo è secondo i canoni tradizionali con i quali solitamente giudichiamo una pellicola qualsiasi. Tarantino tocca i temi del razzismo, del sessismo, mostra una certa mentalità tipica dell’epoca immediatamente successiva alla guerra civile americana, e lo fa attraverso dei dialoghi intensi, ma caricaturali, mettendo in scena situazioni cariche di tensione, ma lunatiche ed in certi momenti quasi comiche. Poi, unendo tutti questi elementi, trascende il genere western e lo contamina pesantemente con il thriller, il giallo, intrecciando i fili, puntando sulla psicologia dei personaggi, analizzandoli come raramente aveva fatto nei suoi precedenti lavori, e sui loro segreti, più o meno importanti per lo svolgimento della trama principale. Ad accompagnare le scene, adattandosi ad ogni momento della narrazione, c’è il genio di Ennio Morricone, che si “limita” a prendere per mano lo spettatore e ad accompagnarlo nella carrozza del cacciatore di taglie John Ruth, prima, e nell’ emporio di “Minnie”, poi. Tutto questo avviene nei primi tre quarti di film, che scorrono via in scioltezza nonostante la lunghezza complessiva dell’opera. Ed ecco, nella parte finale, che entra in vigore la Legge Tarantino. La sua Legge, quella cruda, esagerata, violenta, sanguinaria, fatta di regolamenti di conti, sparatorie e attori morenti che pronunciano le loro ultime parole in un clima surreale per entrare nella storia e per concludere la loro vita più che dignitosamente, sprezzanti del loro destino e guidati da un senso di appagamento dato dalla violenza e dal sangue intorno a loro. Non ci sono mezze misure e non è cambiato niente: Tarantino o si ama o si odia. Il suo stile resta intatto, si tratta di uno di quei rarissimi casi in cui il regista da il nome al genere della pellicola che dirige. Se siete pronti ad accettare l’originalità di un intreccio complesso che sfocia, in seguito, nel più puro “stile Quentin”, se non considerate il regista come un cineasta sopravvalutato e solo “splatter”, The Hateful Eight soddisferà il vostro gusto cinematografico. Non vi troverete di fronte ad un capolavoro o ad un flop, ma ad un altro tassello del mosaico composto da un regista fuori dagli schemi che, nel bene o nel male, sta segnando gli ultimi decenni della storia del cinema.