Room, le false certezze di un mondo chiuso in quattro mura
Ci sono certi film che si aggrappano alle emozioni e all’empatia e ti fanno entrare nello schermo, chiudono il tuo cuore e la tua mente in una stanza e gettano via la chiave. Room, diretto dal regista irlandese Lenny Abrahamson e scritto da Emma Donoghue (autrice del romanzo da cui è tratto), inizia come un thriller psicologico: una ragazza, Joy (Brie Larson, premio Oscar come miglior attrice protagonista), rapita all’età di 17 anni, è rinchiusa, ormai da sette anni, in una stanza, un capanno, un bunker con una porta blindata che si apre solo con una precisa combinazione. Il rapitore, conosciuto solo con il nome di “Vecchio Nick” abusa della donna ogni notte che, circa due anni dopo il rapimento, partorisce un bambino, Jack (Jacob Tremblay), costretto a passare i suoi primi 5 anni di vita nella Stanza (con l’iniziale maiuscola, perchè per lui rappresenta, di fatto, la Terra). La storia, che già presenta dei risvolti raccapriccianti, è ispirata a fatti realmente accaduti che, assurdamente, risultano di gran lunga più tragici e rivoltanti. Si tratta del “caso Fritzl”: una ragazza austriaca segregata in un bunker sotterraneo dal padre che per 24 anni ha abusato di lei, causando la nascita di 7 figli. Ma Room si discosta dalla realtà e si focalizza sulla prigionia e sulla disperazione della ragazza solo in parte. I veri protagonisti sono essenzialmente tre: la Stanza, il Mondo, fuori, e soprattutto il giovanissimo Jack. La Stanza, vista da Joy, è un luogo di disperazione, una prigione senza uscita che prosciuga ogni speranza ed ogni forza, restituita, in seguito, dalla nascita del figlio. Per Jack la Stanza, con la sua finestra chiusa posta sul soffitto, che mostra solo uno squarcio di cielo, è il suo mondo, è tutto ciò che esiste, che è reale, il resto fa parte del “mondo della TV”, dei sogni, dell’universo all’esterno, popolato dagli alieni e dal Vecchio Nick, che porta cibo e vestiti con i suoi “regali della domenica”. Il Mondo fuori è la realtà di Joy, o meglio l’evoluzione di quella realtà, stravolta dall’inesorabile scorrere del tempo. Per Jack il Mondo fuori è una stanza troppo grande e confusa, senza le false certezze offerte dalle quattro mura in cui è nato, una realtà infinita e tutta da scoprire, una novità, che, magari, potrebbe risultare anche piacevole, proprio per questa sua assenza di limiti. La Stanza non è solo un luogo fisico, ma una condizione, un esilio forzato dal mondo che quasi rassicura con la sua routine, ma che uccide la libertà. Dopo essere stati nella Stanza solo un bambino può permettersi di rinascere, di cominciare, nel Mondo fuori, la sua vera vita, probabilmente cogliendo a pieno e fin da subito il suo senso più profondo, con la voglia di imboccare nuove strade, libero ed entusiasta come e forse più degli altri bambini. Una ragazza come Joy, invece, è costretta ad affrontare la perdita di punti di riferimento, ad accettare definitivamente di non poter tornare alla sua vecchia vita e, allo stesso tempo, di non avere più una terribile, ma ormai conosciuta, quotidianità. Room è un film che sorprende con una crescita graduale del coinvolgimento emotivo che stravolge lo spettatore, grazie anche all’ottima interpretazione di Brie Larson, ma soprattutto grazie a quella del giovanissimo Jacob Tremblay, che ha dato vita al personaggio più complesso, completo, ma allo stesso tempo semplice nel suo essere bambino dell’ultima stagione cinematografica e non solo. Questa pellicola fa riflettere, ti porta dall’inquietudine e l’incertezza per la sorte dei due prigionieri, alla riflessione sulla libertà e sulla realtà, in particolare sul modo in cui la percepiamo. Room, in una parola, è un’emozione.