Pale eoliche galleggianti e ampliamento pista di Nardò: le ultime questioni controverse in materia di impatto ambientale nel Salento
C’è stato il periodo nel quale la madre di tutte le battaglie ambientaliste nella penisola salentina è stata quella al Tap, il gasdotto alla fine approdato sulla marina di Melendugno dopo una serie infinita di polemiche e ricorsi da parte dell’amministrazione locale e di tantissime organizzazioni contrarie all’opera. Alcuni commentatori hanno anche avuto modo di sottolineare come, tanta contrarietà non abbia neppure portato ad un significativo riconoscimento in termini di ristori verso il territorio.
Quello delle servitù energetiche è in ogni caso il destino di un territorio localizzato strategicamente: nei pressi delle coste della penisola balcanica e della Grecia, dove approdano gasdotti e metanodotti provenienti da Oriente. In più, il Salento è, come recita la reclame pubblicitaria, la terra del Sole, del mare e del vento, ed è quindi inevitabile che qui vedano la luce degli impianti in grado di sfruttare l’energia eolica, oltre che quella solare.
Come abbiamo già affermato su queste pagine, fortissima è la nostra contrarietà rispetto all’insediamento di campi di pannelli fotovoltaici nelle campagne, già abbondantemente deturpate negli ultimi anni dall’invasione degli specchi di silicio. Se è vero che gli agricoltori, una parte di essi, ha trovato con essi una soluzione individuale ai problemi in cui versa l’agricoltura, liberandosi del problema vendendo, non si tratta di un esempio di lungimiranza.
Anche le pale eoliche si sono radicate molto nel territorio salentino e pugliese. Esse hanno almeno il pregio di non consumare, letteralmente, superficie coltivabile, rovinandola con l’uso di diserbanti e distruggendone per sempre le potenzialità produttive. Ora però, sta prendendo piede una nuova modalità di sviluppare il settore eolico, quello “offshore”, lungo i litoranei marini, impiantando o mettendo a galleggiare gigantesche pale eoliche a distanza di qualche km dalla costa.
Sono in corso di approvazione di procedure di Via (Valutazione d’Impatto Ambientale) per due impianti: uno all’altezza di Brindisi e l’altro all’altezza di Otranto, entrambi sostenuti dal finanziamento delle multinazionali in parternariato Renantis-Blue Float Energy. E ne continuano a giungere: solo nel Capo di Leuca sono stati presentati progetti che prevedono concessioni demaniali marittime per 600 chilometri quadrati. Anche per protestare contro i progetti futuribili, oltre che contro quelli in fase di approvazione, è in programma per domenica prossima una manifestazione di protesta a Porto Miggiano, organizzata dal gruppo regionale La Puglia Domani, guidato dall’editore leccese Paolo Pagliaro, alla quale hanno aderito le rappresentanze di svariati comuni della provincia di Lecce.
“I mostri galleggianti in mare – dice Pagliaro – sono visibili da ogni punto della costa e in qualsiasi condizione meteo. Un pugno nell’occhio inaccettabile, una cicatrice permanente e un colpo al cuore della nostra terra”. Non è sufficiente, come nel caso di Odra, averli allontanati di qualche km, da 9 a 12, per cancellarne l’impatto. Oltre all’impatto visivo, esse disturbano l’insediamento della fauna marina, danneggiano la pesca ed i fondali marini, a causa degli ancoraggi utilizzati.
Gli spazi vincolati all’insediamento di questi impianti sono stati individuati dalla Regione esclusivamente all’altezza dei porti di Manfredonia, Bari e Brindisi (città alla quale si continua a chiedere molto più di quello le si dà). Il dg di Renantis-Blue Float Energy, Kseniia Balanda, ha messo sull’altro piatto della bilancia, la garanzia che i lavori di costruzione saranno volti a far lavorare con diritto di precedenza imprese pugliesi, con la promessa mirabolante di migliaia di posti di lavoro che si creeranno per la realizzazione dei due impianti in attesa di autorizzazione.
Da Brindisi a Nardò, per i lavori di ampliamento della pista “Tecnichal Center“, per i quali la stessa Regione ha sottoscritto un accordo di programma il 29 agosto dello scorso anno. Il caso della pista Porsche di Nardò nei giorni scorsi è diventato un tema anche per la stampa e la politica tedesca. E l’accusa più dura è stata mossa proprio da lì: con il sacrificio necessario di 200 ettari del bosco d’Arneo, ultimo residuo di una foresta secolare, il Gruppo Volkswagen (di cui Porsche fa parte) – è stato detto – tradisce una missione che ha sempre definito, invece, prioritaria: la sostenibilità di ogni suo intervento.
A chiedere alla Regione un’immediata revoca dell’autorizzazione concessa, tre associazioni ambientaliste Italia Nostra – Sezione Sud Salento, il Comitato Custodi del bosco di Arneo e il Gruppo di Intervento Giuridico. Regione Puglia che ha concesso l’autorizzazione in base al requisito del “pubblico interesse”, sussistente a suo avviso nel fatto che i lavori di ampliamento porteranno alla costruzione di due infrastrutture strategiche, delle quali quella zona della Puglia è sprovvista: un Centro di Soccorso attrezzato con Eliporto e un centro di sicurezza antincendio.
Se è vero che, per contrastare la grave piaga degli incendi estivi nel Salento ad esempio, si è costretti a chiamare i soccorsi dalla Calabria, le associazioni ambientaliste, ora rafforzate anche dalla polemica sorta a Stoccarda, si chiedono se sia opportuno procedere alla sua edificazione ai danni di un sistema boschivo di pregio, fra i pochissimi peraltro rimasti nella zona.