“Morti di scuola”: cosa ne pensano gli studenti pugliesi
“Morti di scuola“: cosa ne pensano gli studenti pugliesi.
Ancora uno studente «morto di scuola»: questa volta il triste mietitore ha colpito una 26enne di Somma Vesuviana, provincia di Napoli, Diana Biondi. Ma credere che questo rappresenti un caso isolato sarebbe profondamente errato e banalizzante nei confronti di una vicenda che di banale presenta ben poco.
Sono già 3, dall’inizio del nuovo anno, i suicidi di studenti universitari che, sommersi dalle incombenze e dallo stress dovuti allo studio, sono giunti al più estremo dei gesti.
Possiamo affermarlo, è oramai ufficiale: la Scuola è annoverabile fra le cause di morte. E, per quanto chiunque – specie gli adulti, coloro che a queste vicende ed in generale al sistema-scuola sono esterni, possa credere che una manciata di pagine da studiare ed una persona designata a giudicare l’effettiva qualità del tuo studio non possano condurre a privarsi della vita, è innegabile che fra tutti questi casi che negli ultimi tempi abbiamo osservato vi sia una sottile linea rossa, un minimo comune denominatore.
Si, è vero: non è una manciata di pagine da studiare che conduce questi ragazzi a togliersi la vita. Ma tutto ciò che attorno allo studio gravita. La famiglia, la Scuola, il mondo del lavoro che li attende, i coetanei. La società, tutta.
Eppure, potranno affermare i boomers, «ai nostri tempi non era così». E ciò non è assolutamente negabile: il tasso di Suicidi fra giovani under 30 è un dato in continua ascesa; basti pensare che solo rispetto al non troppo lontano 2019 (periodo pre-pandemico, caratteristica sicuramente determinante e non trascurabile) sia aumentato del 23%. E le ragioni, come da tradizione, risiedono nella storia.
Il mondo in cui questi ragazzi si muovono è un mondo post-capitalista: dopo aver assistito al fallimento del regime capitalista avvenuto fra la fine degli ‘80 e l’inizio dei ’90, la Società, oramai in profonda crisi umana più che meramente economica, ha deciso d’intensificar ancor di più le caratteristiche malate che la contraddistinguevano, trasformandosi nel proprio “Dark Side of the Moon”, nel proprio alter-ego ancor più oscuro.
Se prima la competizione, di qualunque genere essa fosse, veniva indubbiamente sofferta dalle persone più fragili, ora è estenuante, è un tarlo che logora le menti e le budella dei giovani, fino a condurli alla psicosi.
“Mi sento sommersa, è come se una valanga mi stesse inseguendo e io non potessi nemmeno fermarmi per guardarmi alle spalle”: questo ha dichiarato Sara, studentessa del Liceo Archita di Taranto. “Se il futuro non è altro che un presente prolungato all’infinito, allora cosa c’è di tanto meraviglioso in questa vita?”: afferma Antonio, studente del Liceo Ferraris di Taranto.
Contrariamente rispetto a quanto potreste facilmente credere, queste non sono frasi pronunciate in momenti di crisi: i ragazzi erano appena usciti da scuola, pronti a vivere una giornata come tante, come tutte. Sono frasi pronunciate in piena lucidità, frasi partorite da una mente perfettamente razionale, per niente offuscata da quella che potrebbe essere la concitazione di un momento di sconforto estremo.
Questi ragazzi sono pienamente consapevoli della propria disillusione e talmente ci sono abituati, assuefatti che ci convivono come fosse la normalità. Perché, in fin dei conti, questa per loro non è altro che normalità.
Non ci sono più figure mitiche in cui credere, nessun idolo che mostri loro, seppur in maniera abbastanza inverosimile, una via d’uscita. Nessun ideale per cui lottare, nessun valore a cui appigliarsi. «Una vita è degna d’esser vissuta solo se all’interno vi è una lotta»: proclamò in un’intervista del 1949 Albert Camus, celebre scrittore e filosofo francese, premio Nobel per la letteratura nel 1957.
Ma questi ragazzi non posseggono più niente per cui lottare o contro cui lottare: ormai privi d’ideale, di qualcosa che li smuova in cuore, anche la lotta contro qualcuno, la ribellione («Mi ribello quindi esisto», sempre Albert Camus) risulta vacua.
Il sistema non è più quello di un tempo. Ogni traccia di autoritarismo è ormai andata disperdendosi nella dimensione del ricordo ed i pochi segni ancora tangibili del mondo che fu sono rari e di rilevanza trascurabile. Il sistema ora appare accomodante: non vi è alcuna dura imposizione, il tutto avviene in maniera incredibilmente subdola. Il modo ortodosso di essere («più in forma, più felice, più produttivo… un maiale in gabbia sotto antibiotici» così i Radiohead, nel 1997, sostenevano che la società in futuro ci avrebbe desiderato) viene suggerito, sussurrato all’orecchio, inculcato nelle menti tramite un’attenta operazione d’indottrinamento che parte dalla nascita.
Quante volte negli ultimi mesi avete sentito parlare della storia di Carlotta Rossignoli, a 23 anni già laureata in medicina? O del record di Federica Lorenzetti, che ha bruciato tutti sul tempo laureandosi in Giurisprudenza in soli 3 anni e mezzo? I media sono anni che ci bombardano con notizie come queste, di «lauree in tempo record», e noi, fidi servitori del sistema, le abbiamo interiorizzate fino a credere che questa possa essere la realtà di chiunque. E allora ragazzi, magari meno dotati dei casi sopracitati, si sono lanciati in un estenuante inseguimento della perfezione e del tempismo, cercando di emulare ciò che i media mostravan loro fosse giusto, fallendo però miseramente.
In molti, pur di provare a tagliare il traguardo precedendo chiunque altro, sono arrivati persino a dimenticare di essere umani. Carlotta Rossignoli, con intenti forse innocenti o forse no, ha narrato la propria routine che l’ha portata a quel mirabile obiettivo. «Per me il sonno è tempo perso»: ha dichiarato la giovane veronese. «Sono arrivata tranquillamente a studiare dalle 6 del mattino alle 2 del mattino dopo».
«Negli scorsi anni, vivevo unicamente per la mia passione: il nuoto.» afferma Giovanni, studente dell’Università di Bari «poi è arrivata l’università e, come se di nuotare non me ne importasse, ho dovuto abbandonare». Giovanni è solo uno dei tanti casi di ragazzi costretti a rinunciare alle proprie passioni in favore dello studio. A rinunciare alla propria umanità in favore dello studio perché, come affermava Fabrizio De André, «…un uomo senza utopia, senza sogno vale a dire senza passioni non è altro che un mostruoso animale fatto di istinto e raziocinio, una specie di cinghiale laureato in matematica pura».
Il problema è che questa società, devota unicamente al profitto ed all’efficienza, ha perso la propria dimensione umana e questi iterati casi di suicidio fra i giovani – non a caso, le creature storicamente più fragili – non sono altro che la punta dell’iceberg, la manifestazione più plateale del periodo di profonda crisi dell’umanità in cui oggi vessiamo.