Il Palmento
Da sempre la fatica della vendemmia e della pigiatura dell’uva è associata alla gioiosità, alla letizia
In Geremia, il profeta presente nell’Antico Testamento, che iniziò la sua attività nel 626 a.C. si legge: ”Sono scomparse le feste chiassose dalle vigne e dai campi di Moab. Non si versa più il vino dai tini, nessuno pigia più l’uva, sono finite le grida di gioia (48,33).”
Da sempre, quindi, la fatica della vendemmia e della pigiatura dell’uva è associata alla gioiosità, alla letizia.
Il più antico impianto di vinificazione è stato ritrovato in Armenia e risale a 6000 anni fa, mentre i reperti archeologici ci consegnano pigiatoi in argilla, in legno, o scavati nella roccia. Questi ultimi sono costituiti da una vasca di pigiatura incisa nella roccia e collegata tramite un canaletto di scolo ad una seconda vasca, in quota più bassa, in cui defluiva il mosto.
Impianti di vinificazione domestica sono presenti in molte case dei contadini meridionali. Quelle dei ginosini erano caratterizzate da affascinati ipogei realizzati scavando nel tenero masso tufaceo, come nelle contrade più antiche, o nella terra su cui erano costruite le case dei quartieri della Ginosa recente.
Gli ipogei erano le fresche e buie cantine domestiche, pieni di capasoni e botti in rovere, in cui si garantiva la naturale evoluzione del mosto in vino ed il suo affinamento.
Vino pregiato e corposo prodotto dalle vigne che erano disseminate sull’intero territorio.
Con l’arrivo del tempo della vendemmia, le pareti delle cantine venivano ripulite con imbiancatura a calce, mentre i capasoni e le botti, ormai vuoti, venivano lavati per poter accogliere il nuovo vino.
In ogni cantina, la struttura che accendeva la fantasia dei piccoli ginosini era u palmiènde o u pavmiènte, ossia il palmento, una grande vasca in muratura intonacata internamente, dotato alla sua base di un foro di scolo in cui era inserito un rubinetto a saracinesca. In prossimità della vendemmia veniva colmato con acqua per consentire l’idratazione delle pareti e scoprire eventuali microfessure che avrebbero potuto far dispendere il mosto che lì avrebbe fermentato dopo la pigiatura dell’uva.
I nostri nonni, dopo aver vendemmiato, poggiavano sui bordi del palmento una macina che triturando i grappoli d’uva li faceva cadere nel suo interno. In corrispondenza del foro di scolo, prima della triturazione, si adagiava un mazzetto di sparacine, piante di asparago strettamente legate, che avevano la funzione di filtro durante l’estrazione del vino dal mosto già fermentato.
Durante la fermentazione, con bastoni molto lunghi che garantivano una distanza di sicurezza, si effettuava una operazione rischiosa: il mescolamento delle vinacce, abbascià la venazz, che era il segreto di un buon vino.
Dopo la fermentazione delle vinacce, quando i suoi pericolosi gas si erano rarefatti, si poteva scendere in cantina e aprendo il rubinetto collegato al foro di scolo del palmento si estraeva il vino fiore che veniva versato nei capasoni o nelle botti.
Le vinacce che rimanevano sul fondo del palmento venivano raccolte e messe nel torchio, u strungeture, dal quale si otteneva u mière de la strungitora che si aggiungeva a quello già estratto. Questa modalità, rimasta immutata per secoli, produceva vini di alta gradazione.
Quanti fossero i palmenti nell’antica Ginosa non è possibile stabilirlo; per certo in “Acta Sanctae Visitationis In Terra Genusii” a cura di Paolo Bozza, un documento-testimonianza della visita pastorale di Mons. Giovanni Michele Saraceno avvenuta nel 1544, si evince che “Angelo Vizario et per esso è comparsa Sibilia Maiore, sua mogliera, et dice tenere una vignia alla contrata de lo Palmento, iuxta / la vigna de Iacobo Salvagio et iuxta l’altra vignia franca de ipso Angelo et la / via puplica, et la tene ad censo perpetuo et ne paga anno quolibet alla ditta Mensa grani dece”
A Ginosa, quindi, era presente una contrada denominata Palmento! Forse per la presenza di un palmento rupestre realizzato in piena luce, che i romani chiamavano calcatorium, scavato nella roccia e che consentiva la spremitura delle uve mediante il calpestio o calcatio.
Antonietta Buonora