L’origine della città nuova
Da un punto di vista architettonico la piazza si pone come un accogliente slargo all’incrocio di due vie, prima di giungere nella piazza antistante la Basilica di San Martino.
Un’anticamera che lascia intravedere la sontuosa facciata della chiesa. Una pausa, una sosta, prima di gustare per intero quella luminosa e ricca architettura rococò.
Ma la piazzetta con la sua curvilinea successione di archi non è solo questo: è un luogo di relazioni e di eventi con una connotazione architettonica ed urbana ben chiara.
Il porticato rappresenta un esempio di impianto architettonico equilibrato, classico, raffinato che conferisce all’area una nota di eleganza e di signorilità, liaison tra via Cavour e il Palazzo dell’Università.
La parte edificata è costituita da un portico ricurvo verso lo spazio antistante ed aperto sulle due testate, con un totale di 15 archi a tutto sesto, impostati su piloni rettangolari ben dimensionati per poter ricevere il carico di altri piani sovrastanti.
Il prospetto delle arcate, visto nella sua dimensione totale collega due isolati e attribuisce alla piazza un disegno unitario, basato su un progetto di gusto neoclassico, attuato secondo i canoni della gerarchia e della sovrapposizione degli ordini architettonici. Al livello del portico troviamo lesene con capitelli tuscanici.
La costruzione della piazza Maria Immacolata non fu un episodio isolato, ma rappresentò, al contrario, l’avvio di una nuova visione, più matura, adeguata alle esigenze di una città in forte espansione.
Il porticato realizzato su disegno di Davide Conversano si inserì, nel contesto urbanistico, in piena sintonia con l’architettura esistente per far parte del processo edificante utile al miglioramento continuo della città rendendo sacro e più visibile, più vivibile, lo spazio.
L’architetto ascoltò la voce del luogo e non vi sovrappose la propria, ma ne esaltò l’anima rendendo la vita possibile, arricchendola, oltre la funzionalità del valore.
Ricorrendo ad un’idea ancestrale del costruire, un tratto di ellisse, una linea dinamica che interagiva con la Storia, Conversano creò una cerniera, un trait d’union tra i palazzi Fanelli, Caramia di via Cavour e il palazzo Marino Motolese, piazza Plebiscito.
In tal modo rispettando il territorio, proteggendolo, permise alla sua energia di vivere, sopravvivere nel tempo, di giungere sino a noi e andare oltre.
Con il suo metaforico abbraccio il porticato comunicava alla sensibilità degli abitanti, finiva per trascendere la propria funzione e costituire un’architettura senza tempo, un segno in cui la collettività potesse riconoscere la propria identità irripetibile, universale.
Un oggetto urbanistico in grado di coniugare profondità spirituale e pratica sociale.
Con la costruzione della piazza la via era tracciata: nel 1853 il Comune affidò all’ingegnere Benedetto Torsello il compito di progettare il borgo fuori dalla cinta muraria, tra via Taranto, piazza Crispi e via Antonio Bruni.
Il 25 aprile 1863 veniva discusso in consiglio comunale il primo Regolamento dell’Ornato in cui era specificato, tra l’altro: Ogni possessore che vuole intraprendere riparazioni, costruzioni ed innalzamento dei muri fronteggianti le strade è in obbligo di presentare al Municipio il progetto di costruzione dell’opera da eseguirsi, ed accordarsi con lo stesso in ordine al modo di esecuzione. La Giunta municipale si occuperà mediante periti architetti all’uopo nominati, della Regolarità e dell’allineamento circa la forma esterna degli edifici.
Nel 1867 gli amministratori comunali invitarono l’architetto Giuseppe Semeraro a redigere un progetto per il Cimitero lungo la via per Ceglie. Dopo aver superato alcune incertezze ed aver esaminato anche altri progetti nel 1876 fu approvato il disegno dell’architetto martinese, ma solo nel 1882 risultavano eseguiti i primi lavori.
Al 12 novembre 1872 risale un appassionato discorso pronunciato in consiglio comunale dal sindaco Alessandro Fighera impegnato nel risolvere i problemi di igiene che da secoli caratterizzavano l’abitato e nel dare un aspetto gradevole, ordinato, accogliente, sistemando la Villa Garibaldi, fiore all’occhiello della città e invitando la popolazione a trovare una nuova sistemazione fuori dalla cinta muraria.
Era l’inizio di una nuova era, di un nuovo capitolo nella storia della città di Martina.
Nei primi anni quaranta fu collocata, al centro della piazza, una fontana con basamento in pietra e la parte restante in cemento. Questa fontana, vero e proprio ombelico della piazza e della città, svolgeva una funzione pratica, in quanto forniva acqua da bere a chi ne aveva bisogno immediato, ma, anche, una funzione estetica, poiché aggiungeva un elemento architettonico allo spazio, e una funzione simbolica, in quanto ad essa era possibile attingere un elemento primario come l’acqua, metafora della vita. In una foto degli ultimi anni ‘40, quando ancora non era stata realizzata la sopraelevazione prospiciente piazza Plebiscito, si vedono due donne attingere acqua nei secchi, in un assolato pomeriggio d’estate. Nel 1953 fu costruita una seconda sopraelevazione, prospiciente piazza Plebiscito: un’operazione economicamente redditizia considerata l’importanza storica e la felice collocazione urbanistica.
A metà degli anni ‘60 lo spazio interno di ciascun portico fu dotato, come le vie dell’antico centro, di un elegante elemento di arredo: lampioni in ferro battuto, su disegno dell’artista Salvatore Basile, con i sinuosi riccioli tipici dello stile barocco, e realizzati dagli ultimi fabbri ferrai, epigoni di un’antica e fiorente attività, tramandata per secoli, che si era espressa, nel Settecento, nei raffinati balconi dei palazzi signorili.
Alla fine degli anni ’60, con la rimozione della fontana, la piazza fu smantellata. Il mercato trasferito presso la nuova costruzione coperta di piazza Umberto. Commercianti e compratori spostarono fuori dal centro storico le proprie operazioni. Questa decisione costituì una profonda cesura nella vita della collettività in quanto si tolse vita ad un luogo ancestrale della città. Fu sgombrato uno spazio ricco di storia, di arte, che fu immediatamente utilizzato come parcheggio.
In estate non mancavano eventi musicali: concerti per bande, provenienti da ogni parte della Puglia, a cui spesso partecipava la banda del Villaggio del Fanciullo, diretta dal maestro Mario Griffi, come si può osservare in una foto in bianco e nero degli anni ‘60.
In occasione delle feste patronali lo spazio centrale della piazza era occupato da una cassa armonica su cui si alternavano bande e cantanti lirici che davano vita ad apprezzate esecuzioni musicali.
Di grande richiamo, per il pubblico, la rassegna di spettacoli Portici d’estate.
Oggi l’area risente più che mai dell’esodo che ha svuotato il centro storico negli ultimi decenni. La popolazione che a metà dell’Ottocento raggiungeva sedicimila unità è ridotta a tremila abitanti. Stiamo assistendo al fenomeno inverso a quello che avvenne ai tempi del sindaco Alessandro Fighera che si impegnò per far uscire gli abitanti dall’antica cinta muraria.
Oggi è necessario ripopolare il centro storico, ridargli un’anima.
Da troppi anni lo spazio della piazza e delle vie attigue è vissuto da pochi anziani che preferiscono trascorrere qualche momento di solitario relax restando adagiati su qualche panchina.
Per il resto l’area è occupata da una serie ininterrotta di fast food, bracerie, ristoranti (”Garibaldi”!!), bar, focaccerie, pizzerie, paninoteche.
Tavolini per pranzare, cenare, degustare un gelato: una tendenza che riporta la vita, soprattutto d’estate, nel centro della città antica.
E a notte inoltrata, soprattutto nei fine settimana, gruppi di giovani, immersi nella movida, poco rispettosi del bisogno, dei pochi residenti della zona, del diritto a riposare.
La vita e il calore di un tempo sono solo un pallido ricordo affidato alle sbiadite cartoline d’epoca.
Piero Marinò