Il sacco e il nuovo stadio di Roma: quod non fecerunt barbari, fecerunt Franceschini?
I tragici effetti di una inadeguata conoscenza della storia dell’Arte e dell’Architettura, o quanto meno di una inadeguata sensibilità verso quello che è il patrimonio artistico nazionale, continuano a sibilare con una voracità insistente fra le pieghe della realtà politica e soprattutto fra le anse del Tevere. In questi ultimi mesi infatti si sono ulteriormente accesi i riflettori su un faraonico progetto che ha come obiettivo la costruzione del nuovo stadio della “Roma” nell’area di Tor di Valle esattamente dove oggi sorge il noto ippodromo costruito fra il 1957 e il 1959 da: Julio Lafuente, architetto; Gaetano Rebecchini, ingegnere, Aicardo Birago, ingegnere. Sembra di vederlo – tra squilli di tromba e quelle urla, a tratti un po’ sguaiate, cui la cinematografia hollywoodiana anni ’60 del secolo scorso ci ha abituati – il nuovo Nerone che si affaccia dal suo palazzo mentre Roma è in fiamme, e lui il Cesare aspirante poeta, cantante (o contante?), che raccoglie le sue lacrime in un lacrimatoio tutto da suggellare. Di Neroni pronti ad incendiare Roma ce ne sono ancora oggi e sono quelli che nel nome di una romanità architettonica, tutta asfittica, pensano di giustificare l’ennesima estetica speculativa a ridosso del Tevere, comunicando che il nuovo stadio si è ispirato al Colosseo. Un magnifico indorare un’amara pillola. Oramai l’architettura è diventata esplicitamente un’invenzione verbale (il caso del milanese bosco-verticale di Stefano Boeri ne è un esempio lampante). In sostanza il rapporto con i luoghi, il radicamento di una nuova opera passa soprattutto attraverso la parola che, ripetuta senza una riflessione, finisce con l’essere una realtà “oggettiva” più vera del vero. Il riferimento al Colosseo del nuovo stadio è forse legato a qualche mossetta formale (una sorta di invitante ancheggiare del pensiero progettuale) come quella di un muro inclinato ora qui ora lì attraverso cui dovremmo forse leggere una dotta citazione: gli interventi di restauro compiuti da Raffaello Stern e Giuseppe Valadier sul celebre monumento romano nel corso dell’Ottocento. E le lacrime, poi, quali e di chi sarebbero? Quelle che dovremmo versare evidentemente per accettare la distruzione delle tribune dell’ippodromo di Tor di Valle (esempio estremamente significativo di ingegneria moderna). Curioso davvero poi questo atteggiamento della nuova proposta progettuale: da una parte si vuole radicare il nuovo stadio alla forma del suo illustre antenato e dall’altra si vuole distruggere un passato che seppure più recente è altrettanto significativo. Ed allora la domanda viene da sé: il Ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, è a conoscenza di tutto questo? O meglio è consapevole che una struttura oramai parte integrante e fondamentale della storia moderna dell’architettura ed ingegneria italiane verrà abbattuta per far posto ad un nuovo costosissimo giocattolone? Della futura distruzione delle tribune e con esse dell’ippodromo si è a conoscenza almeno dal 2014 (http://www.docomomoitalia.it/patrimonio-a-rischio/patrimonio-a-rischio-ippodromo-di-tor-di-valle-roma/): sarebbe da capire quindi quale il ruolo di tutela svolto negli anni passati sia dalla Soprintendenza di Roma che dalla Direzione Regionale Lazio del MiBACT che sembrano avere ignorato l’esistenza dello storico ippodromo e consentire che venisse abbattuto. Una svista? Una dimenticanza? Detto questo al ministro verrebbe da chiedere necessariamente: vuole essere l’ennesimo Nerone, un po’ farsa alla Hollywood, e raccogliere le sue lacrime a danno avvenuto oppure vuole, più ragionevolmente, sposare la raffinatezza e l’attenzione per il passato che ebbero R. Stern e G. Valadier? Una cosa è certa: salvaguardare l’ippodromo di Tor di Valle con le sue tribune senza rinunciare al nuovo stadio è possibile. Basta volerlo e resistere alle sirene speculative.
Fabio A. Grasso