L’altra faccia della medicina
La dottoressa Daniela Martino, specialista in vulnologia e medicazioni avanzate, racconta la sua esperienza nella cura delle ferite difficili.
Intervista alla dottoressa Daniela Martino, specialista nella cura delle ferite difficili
A Martina Franca una professione poco conosciuta ma fondamentale: la vulnologia. Nell’intervista alla dottoressa Daniela Martino: la scienza, gli esempi concreti e la speranza per i pazienti che rischiano amputazioni o complicanze gravi
Ci sono settori della medicina che il grande pubblico conosce bene: la cardiologia, l’oncologia, la pediatria. Poi ce ne sono altri che restano quasi invisibili, nascosti dietro nomi tecnici o relegati a margine delle cronache. Eppure hanno un impatto enorme sulla qualità della vita. La vulnologia appartiene a questa seconda categoria. È la disciplina che si occupa delle ferite difficili, quelle che non guariscono come dovrebbero e che diventano un problema clinico, psicologico e sociale.
Per comprendere l’importanza della vulnologia bisogna immaginare la vita quotidiana di chi convive con una ferita cronica. Un anziano allettato che sviluppa piaghe da decubito. Un paziente diabetico che non sente più dolore ai piedi e si accorge troppo tardi di un’infezione. Una persona che dopo un intervento chirurgico vede la sutura aprirsi invece di chiudersi.
Situazioni che si trasformano in incubi: odori insopportabili, dolore continuo, difficoltà a dormire, isolamento sociale perché nessuno vuole più entrare in casa. Per le famiglie significa spese, fatica, angoscia. Per il Servizio Sanitario Nazionale significa ricoveri, antibiotici, amputazioni, costi altissimi.
In questo scenario si muove la dottoressa Daniela Martino, che da Martina Franca ha costruito un profilo professionale di eccellenza, riconosciuto in Italia e all’estero. Laureata in Scienze Infermieristiche, con una magistrale in Management dell’organizzazione sanitaria e tre master specifici, ha deciso di fare delle ferite difficili la sua missione. La sua competenza è nota a medici di base, colleghi specialisti, associazioni scientifiche e pazienti che la cercano non solo in Puglia, ma anche in altre regioni e persino oltre i confini nazionali.
Dottoressa Martino, il suo percorso formativo è insolito: dall’arte alla medicina. Come si intrecciano queste due esperienze?
«Ho sempre amato il restauro. Mi sono diplomata all’Istituto d’Arte e il mio sogno iniziale era riportare alla vita opere consumate dal tempo. Poi ho scelto di studiare Scienze Infermieristiche per costruire un futuro lavorativo più stabile. Ma quella passione non è mai scomparsa. Oggi mi accorgo che è parte del mio metodo: quando vedo una ferita, non mi fermo davanti al dolore o all’odore. La immagino già chiusa. Penso al percorso che servirà per riportare la pelle alla sua integrità, come se stessi restaurando un’opera incompiuta. È un restauro vivo, fatto sul corpo umano, che richiede tecnica e visione».
Cosa significa in concreto curare una ferita difficile?

«Significa affrontare un problema che non segue le regole normali della guarigione. Una ferita comune tende a richiudersi spontaneamente: i tessuti si rigenerano, il sangue porta nutrimento, il sistema immunitario difende da infezioni. Una ferita difficile, invece, è il risultato di un equilibrio compromesso: un paziente diabetico, un anziano allettato, una persona con problemi vascolari. In questi casi il corpo non riesce più a fare da solo. La ferita resta aperta, peggiora, si infetta, produce cattivo odore. Senza un intervento mirato può portare a complicanze gravissime: amputazioni, setticemia, morte. Il mio compito è interrompere questo processo e accompagnare il corpo verso la guarigione».
Può raccontarci un caso concreto che le è rimasto impresso?
Ricordo bene un paziente a cui era già stata fissata la data per l’amputazione del piede. Era diabetico, con una ferita che non rispondeva a nessuna cura. Quando l’ho visto la prima volta, la situazione era critica: tessuti necrotici, infezione diffusa, odore molto forte. Ho iniziato con una valutazione clinica accurata, un tampone per individuare il batterio e un antibiogramma per capire quale antibiotico far prescrivere dal proprio medico..
Poi ho scelto una medicazione avanzata che favorisse il debridement, cioè la rimozione del tessuto morto, e che al tempo stesso proteggesse i tessuti sani. Dopo settimane di lavoro, la ferita ha iniziato a migliorare. Alla fine siamo riusciti a chiuderla. Quel paziente non ha perso il piede. Non è stato un miracolo, ma il risultato di un metodo scientifico applicato con costanza».
Che cosa sono queste medicazioni avanzate di cui parla?
«Non sono semplici garze. Sono dispositivi studiati per creare un ambiente controllato attorno alla ferita. Alcune mantengono la giusta umidità, altre assorbono i liquidi in eccesso, altre rilasciano sostanze antibatteriche come l’argento.
Alcune hanno lo scopo di stimolare la formazione di nuovo tessuto. La scelta dipende dal tipo di ferita, dal suo stadio e dalle condizioni del paziente. È come avere una cassetta degli attrezzi: bisogna sapere quale usare e quando. E questo fa la differenza tra un trattamento che non porta a nulla e una guarigione completa».
Dottoressa Martino, lei accenna spesso al fatto che molte amputazioni possono essere evitate. Quanto è frequente questa possibilità?

«Più di quanto si creda. Arrivano da me pazienti a cui è già stata fissata la data dell’intervento. Per molti la prospettiva è irreversibile: se la ferita non guarisce, l’unica strada sembra tagliare via l’arto. Eppure non è sempre così. Con un approccio specialistico, metodico, si riesce in numerosi casi a salvare il piede, la gamba, la mano.
Non perché io abbia un potere particolare, ma perché la scienza mette a disposizione strumenti efficaci che vanno usati nel modo corretto. Questo cambia tutto: un paziente che entra rassegnato esce con la speranza di poter continuare a camminare».
Molti lettori si chiederanno: perché allora questi strumenti non vengono sempre utilizzati?
«Perché la vulnologia è una disciplina giovane, poco diffusa, e spesso sottovalutata. Molti pensano che basti un disinfettante da banco e una garza. Oppure si affidano a soluzioni generiche che non funzionano. Ci vuole formazione specifica, conoscenza aggiornata, capacità di leggere la ferita come un organismo vivo che evolve ogni giorno. In Italia gli specialisti veri sono poco più di centosettanta: pochissimi, se pensiamo all’enorme numero di pazienti che avrebbero bisogno di cure mirate».
Le famiglie spesso si trovano stremate davanti a queste situazioni. Quanto pesa il fattore umano?
«Pesa tantissimo. Una ferita cronica non riguarda solo il malato, ma tutto il suo contesto. C’è l’odore che invade la casa, il dolore che non lascia dormire, la stanchezza di medicazioni continue che sembrano non servire a nulla. C’è anche la vergogna: molti pazienti evitano di ricevere visite per paura che gli altri sentano l’odore della ferita. Io entro in queste case con rispetto, cerco di portare ordine e metodo, ma anche di ridare fiducia. Non è solo un lavoro clinico: è anche un sostegno psicologico e umano».
E dal punto di vista economico? Spesso si sente dire che le sue cure costano di più rispetto all’assistenza standard…
«È vero, nell’immediato. Una mia medicazione può costare dai 70 ai 100 euro. Mentre un’infermiera generica ne chiede 15 o 20. Ma bisogna guardare oltre. Con il mio intervento servono poche settimane per guarire una ferita complessa. Con l’assistenza generica, invece, le medicazioni vanno avanti per mesi o addirittura anni, senza mai arrivare alla guarigione. Alla fine la spesa è più alta, il dolore è infinito, e spesso si arriva comunque all’amputazione. Io preferisco puntare su un percorso più breve e risolutivo: costa di più subito, ma molto meno nel tempo. E soprattutto restituisce una vita normale al paziente».
Lei non si limita all’attività clinica, ma partecipa anche a congressi e scrive articoli scientifici. Quanto è importante questo aspetto?
«È fondamentale. Ogni anno partecipo a masterclass e congressi nazionali, come quello dell’ Associazione Italiana Ulcere Cutanee. Lì si incontrano i migliori specialisti, ci si confronta sui casi più complessi, si presentano nuove tecniche e prodotti. Io stessa ho scritto articoli pubblicati su riviste internazionali, perché credo che l’esperienza non debba restare solo mia: deve diventare patrimonio collettivo. La vulnologia evolve rapidamente, e restare aggiornati significa poter offrire ai pazienti le migliori cure possibili».
Un altro aspetto innovativo del suo lavoro è la telemedicina. Ci racconta come funziona?
«Abbiamo sviluppato un progetto che mi permette di seguire pazienti anche a distanza. Preparo dei kit personalizzati con le medicazioni giuste, li spediamo in tutta Italia e anche all’estero, e poi monitoro l’andamento della ferita con foto e video inviati dalle famiglie o dagli infermieri locali. In questo modo posso correggere eventuali errori, dare indicazioni precise, cambiare protocollo quando serve. È come essere accanto al paziente anche a centinaia di chilometri di distanza. È un modello che ha già dato ottimi risultati: ci sono persone che senza questo sistema non avrebbero avuto accesso a cure specialistiche».
C’è un caso seguito a distanza che ricorda con particolare soddisfazione?

«Sì, una signora in Austria che aveva una piaga cronica da anni. Aveva provato di tutto, senza risultati. Ci siamo sentite, ho preparato un kit, e tramite foto e video abbiamo seguito passo dopo passo l’evoluzione della ferita. Dopo poche settimane c’era già un miglioramento evidente. Alla fine la piaga si è chiusa. È stato emozionante: nonostante la distanza, siamo riuscite a ottenere una guarigione che sembrava impossibile».
Dottoressa, qual è il suo sogno professionale per il futuro?
«Il mio sogno è semplice: guarire più persone possibili e far sapere che una ferita non è una condanna. Voglio che nessuno debba più sentirsi dire “non c’è niente da fare”. Una ferita deve avere un tempo limitato, non può diventare un marchio permanente. Se trattata nel modo giusto, può guarire. E io voglio portare questo messaggio il più lontano possibile».
La dottoressa Daniela Martino vive e lavora a Martina Franca, nel cuore della Valle d’Itria. È lì che ha costruito la sua reputazione professionale, fatta di competenza, studio e risultati tangibili. Ma il suo lavoro non conosce più confini territoriali. Grazie al progetto di telemedicina, segue pazienti in tutta Italia e anche oltre, con un metodo innovativo che permette di ricevere cure specialistiche anche a distanza. I kit personalizzati, inviati direttamente a casa, uniti al monitoraggio continuo tramite foto e video, hanno trasformato la sua attività in un modello replicabile e moderno, capace di raggiungere chiunque abbia bisogno.
Il suo percorso non è fatto di promesse facili, ma di risultati concreti. La sua visione parte da un principio semplice: una ferita non deve essere una condanna. Conoscere la vulnologia, applicare i protocolli giusti, usare le medicazioni più adeguate e soprattutto guardare il paziente nella sua interezza significa cambiare il destino di chi conviveva con dolore, odore, isolamento e disperazione.
La sua attività dimostra che la competenza specialistica non è un lusso, ma un investimento etico e umano che riduce costi, evita complicazioni e restituisce dignità. Le famiglie che si rivolgono a lei non trovano solo una professionista, ma una guida capace di trasformare mesi di frustrazione in settimane di guarigione.
In un tempo in cui la medicina sembra sempre più impersonale, fatta di numeri e procedure, la vulnologia di Daniela Martino restituisce un volto umano alla scienza. Ogni caso è unico, ogni paziente è una persona da ascoltare e accompagnare. Ed è forse questa la cifra più autentica del suo lavoro: l’arte di immaginare una ferita già guarita e di accompagnarla, passo dopo passo, fino alla sua chiusura.
Oggi da Martina Franca parte un messaggio che arriva lontano: una ferita difficile può guarire. E dietro questo messaggio c’è una donna, una professionista, una studiosa che ha fatto del “restauro della pelle” la sua missione di vita.
Antonio Rubino è giornalista, editore e direttore del Gruppo Puglia Press e de La Voce del Popolo. Esperto di comunicazione e organizzatore di grandi eventi, ha collaborato anche con la RAI. Leggi la biografia completa




