Taranto – “Thilafushi, la pattumiera delle Maldive”: intervista a Francesca Borri.
TARANTO – In mattinata abbiamo avuto modo di contattare la giornalista Francesca Borri – corrispondente di guerra per “Il Fatto Quotidiano” – che nei giorni passati ha intrecciato il suo destino a quello dei tarantini, per una frase che ha suscitato diverse polemiche. L’articolo “Thilafushi, la pattumiera delle Maldive” è apparso sul quotidiano il 17 settembre e racconta le condizioni di vita degli operai nella città industriale Thilafushi.
La polemica nasce da un presunto parallelismo tra Taranto e l’immagine della città descritta da Francesca Borri nel suo articolo: “Sembra sabbia. Ma è spazzatura. Thilafushi è sette chilometri a ovest di Male, è una striscia, sottile: è lunga 3,5 chilometri e larga 200 metri. Ed è artificiale. Si allarga di un metro quadro al giorno, più o meno: ogni giorno di 330 tonnellate di rifiuti. Le Maldive non hanno un inceneritore. Costa troppo. Intorno ai 15 milioni di dollari. Quanto dieci nuove stanze in un resort. Sono tutti operai, qui. Thilafushi è anche la zona industriale delle Maldive. Ha un cementificio, dei cantieri navali. E una serie di piccole officine. Non c’è l’asfalto, per terra, e neppure la sabbia, in realtà. Solo questo fango chiaro che è un po’ di tutto: è terra, è sabbia, acqua, cemento, intriso di stracci, di pezzi di cartone, pezzi di plastica, pezzi di ferro, a tratti un po’ d’erba, nell’aria densa di diossina. Sembra Taranto.Sembra Taranto. Respiri cancro.”
La abbiamo quindi chiesto cosa avesse pensato di tutte le reazioni suscitate dal suo pezzo: “Son rimasta male e anche mio padre, che è stato tra i fondatori del Politecnico di Taranto. Lui è tornato dagli Stati Uniti negli anni 80, per fondare il Politecnico di Bari e poi quello di Taranto, pensando che fosse l’unico modo per poter affrontare la questione del siderurgico, mettendo dei centri di ricerca. Mio padre che ufficialmente aveva la cattedra a Bari, faceva lezione a Taranto per coprire chi non voleva andare a Paolo VI a fare lezione. Neanche gli assistenti più giovani volevano. La sua amarezza, ora che è in pensione da un anno, è di non aver potuto creare centri di ricerca attorno al siderurgico.“
Parlando con lei, il lieve accento “tradisce” la sua origine: “Sono pugliese anche io, di Bari. Noi pugliesi la conosciamo tutti la questione ambientale di Taranto. Il problema però è a livello nazionale e anche e soprattutto a livello europeo. Perché la soluzione non è neanche più di portata nazionale davanti ad una cosa del genere. Io penso che non sia – e lo dico da pugliese – un problema di Taranto l’inquinamento ambientale. Nel non dire nulla, si fa il gioco di chi ha tutto l’interesse che della questione di Taranto non si parli a livello nazionale.”
E a chi dice che Taranto non la conosci affatto e che non hai mai visto la città con i tuoi occhi?: “Io a Taranto son venuta tante volte prima di aver fatto l’inchiesta legata all’Ilva, che è stata l’inchiesta per cui io sono diventata giornalista. E di Taranto ho parlato in giro per il mondo, incluso ad Oslo, l’anno scorso, quando ho introdotto la stagione del Nobel per la Pace. Ho studiato diritto internazionale ed ero una specialista di diritti umani. Mi sono laureata con Antonio Cassese che è stato il fondatore della Corte Penale Internazionale e per me lui è stato come un padre. Lui si è ammalato di leucemia, il tipo di cui si ammalano soprattutto gli operai. E nel 2011, quando ha avuto una recidiva dopo 10 anni e ha capito che non ce l’avrebbe fatta, mi ha chiamata mentre ero in Medio Oriente dicendomi: <Vai a raccontare Taranto.> E così scrissi sull’ Ilva. Lui è morto prima che potesse leggerla. Quella fu un inchiesta che nessuno volle pubblicare perché avevano paura della reazione dell’Ilva.”
Cosa hai pensato dei commenti che iniziavano ad arrivare per il tuo articolo: “Quando è apparso online e abbiamo letto i primi commenti che associavano il riferimento di Taranto alla discarica – pezzo che tra l’altro è incentrato sugli operai e non sulla discarica – ho aggiunto immediatamente un commento in calce al pezzo, scrivendo che il riferimento non era alla discarica ma invece alla diossina, all’inquinamento. Mi ha colpito perché le persone che hanno commentato, hanno tutti foto di amici malati di tumore. Uno dei primi commenti arrivati era di un utente che contemporaneamente, sul proprio profilo, pubblicava una foto della nube di polveri sulla città e con la didascalia della foto che faceva riferimento all’indifferenza di tutti, nei confronti del problema. La ragione per cui nomino sempre Taranto è che quando ne parli – come mi è capitato a Bormio, a Milano e nelle presentazioni per il libro di questi giorni – tutti conoscono l’Ilva. Ma l’idea è che sia un problema cronico. È questa l’idea che c’è nel resto dell’Italia. Quindi mi ha stupito, perché pensavo che il riferimento alla diossina potesse essere anche banale, risaputo. In tutti questi messaggi dei lettori ho vista la sofferenza profonda della città.”
Le chiediamo un suo pensiero su Taranto, anche a seguito di questa vicenda e delle reazioni al suo pezzo: “Ci sono due luoghi che cito sempre, per ragioni sentimentali, e uno di questi è proprio Taranto. Il confronto era con l’aria di diossina, naturalmente, e non con la città. Anche se è passato quel messaggio. Quell’articolo è incluso anche nel mio libro, ma nel libro è: < Sembra Taranto, l’Ilva di Taranto >”. Mi ero ripromessa di tornare a raccontare Taranto. Mi ha colpito percepire dai commenti che la città si senta abbandonata. Una città che è in difficoltà rispetto ad un problema tanto grande. I lettori che commentavano con le foto del tramonto, del mare, degli spaghetti alle cozze, mi hanno fatto sorridere. Ma il punto è parlar fuori dalla città del problema ambientale. I tarantini come possono risolvere da soli questo problema gigante?”