Firenze, l’artista cinese Ai Weiwei e le sue storie di gomma.
L’artista cinese Ai Weiwei è intervenuto a Firenze con una sua opera che in questi giorni molto ha fatto discutere. La location (oggi la si definisce in questo modo) è il rinascimentale palazzo Strozzi ed in particolare due sue facciate. L’operazione “artistica” è già di fatto ampiamente riuscita perché fa discutere e perché ha attecchito nel mondo dell’informazione soprattutto grazie alla velocità di internet e dei social. L’opera (attaccare gommoni arancioni dal fondo a griglia sulle finestre del primo piano del palazzo per rievocare la tragedia dell’immigrazione) è reversibile ovvero verrà smontata e si suppone che non abbia danneggiato le mura dell’edificio storico. Il problema è altro quindi. Che arte è questa? E soprattutto è arte? E’ sufficiente che un’operazione sia prodotta da un artista noto per farla diventare un’opera d’arte? Difficile rispondere. Certo è però l’impegno dell’artista cinese a favore dei diritti umani (in questo caso, ancora una volta, il riferimento è a quanto accade sulle coste italiane e non solo con le migliaia di rifugiati provenienti dall’Africa e dal Vicino Oriente). Che differenza c’è fra questo intervento è quello di solo qualche anno fa in cui si appoggiarono veli ed “anaconde piumate” sui bronzi di Riace? Per un’opera di pittura la sovrapposizione sembrerebbe in genere limitata da un certo pudore che indurrebbe ad usare copie (come dimenticare i celebri baffi fatti alla Gioconda?), per una scultura ed una architettura tutto sembra invece consentito addirittura sugli originali. E così mettersi in relazione con un edificio storico è diventato più di una moda. Un must per dichiarare la propria esistenza. Le reazioni all’opera dell’artista cinese sono state le più diverse per natura (politica, sociale, pubblicitaria) alcuni hanno infatti salutato positivamente questo irrompere della realtà umanitaria nel “salotto buono” di Firenze, altri, invece l’hanno vista come una clamorosa operazione di marketing tesa a pubblicizzare la mostra che lo stesso artista cinese presenta all’interno di quel palazzo. Le categorie del bello e del brutto non servono più, molto invece la discussione. C’è da osservare che questo artista così come molti altri vivono la storia dell’arte italiana principalmente ed almeno inizialmente come immagine. Possiamo parlare nel loro caso di un vero e proprio culto dell’immagine (ora di un palazzo rinascimentale, ora di una piazza e così via) in cui il primo atto eversivo (artistico?) vuole la dissacrazione dell’oggetto, del feticcio. Quel palazzo (ma il discorso vale per altri casi) è vissuto invece con una quotidianità sorprendente da parte dei cittadini che quella piazza o quell’edificio vivono ogni giorno. E questa quotidianità diventa, come si diceva, “sorprendente” agli occhi degli altri quando dimostriamo di riuscire a contemplare o vivere uno spazio con i suoi edifici anche in un tempo diverso dal nostro: piazza san Pietro a Roma con il suo colonnato è “ancora” barocca oggi e gli spettatori più o meno consapevolmente diventano essi stessi “spettatori barocchi” durante le celebrazioni domenicali attuali nonostante siano passati oltre quattrocento anni dall’epoca della costruzione del colonnato berniniano. A questo infine si aggiunga che la storia dell’architettura ci ha abituati a fenomeni di cancellazioni, contraddizioni, contrasti molto più qui che non altrove. Ciò che quindi è “greve” nell’intervento di Ai Weiwei è forse questa incapacità di osservare in filigrana la storia artistica di un paese prima ancora che quella di una città come Firenze. Ed in questa incapacità introspettiva si annida anche quel rapporto diretto che c’è fra la tragedia degli immigrati e l’appendere i gommoni. E’ un rapporto diretto che seppure essenziale elude la semplicità e sfocia nella banalità perché l’opera è a Firenze ma potrebbe stare ovunque come un non-luogo artistico anzi proprio come non-arte. A tutti questi (ed altri) ragionamenti si potrebbe però obiettare un dato di fatto: per i prossimi quattro mesi (tanto durerà la mostra dell’artista cinese a palazzo Strozzi) è negato il diritto al cittadino comune di osservare (o contemplare fate voi) l’edificio rinascimentale. Ed è proprio questo diritto sospeso prima ancora che negato a generare una contemporaneità, una transitorietà perenne. In un paese come il nostro con le sue altrettanto eterne incompiute (architetture, urbanistiche, leggi transitorie, etc) l’intervento dell’artista cinese appare quindi ridondante, a tratti inutile. Senza dimenticare infine che oltre l’architettura fortemente materica espressa da quel palazzo vi è quella altrettanto forte, sebbene immaterica, espressa dall’informazione. Può quindi il perturbare l’immagine tradizionale di un palazzo aumentare la nostra attenzione e sensibilità al tema dell’emigrazione più di quanto facciano già i tg ed i social o più semplicemente la foto del bambino di Aleppo? Evidentemente no. Questo intervento “gommoso” è solo una delle tante voci del presente fondate sulla convinzione che la stonatura visiva sia originalità. Ed allora rimaniamo in attesa che anche questa storia così come i gommoni, un po’ per l’Autunno incipiente , un po’ per il tempo che passa si sgonfi.
Fabio A. Grasso