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Ricordo di Giuseppe De Donno, medico di campagna e non azionista di Big Pharma

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Le Officine Cantelmo di Lecce hanno ospitato ieri il convegno dal titolo “Giuseppe De Donno, il coraggio della vera scienza”, dedicato a commemorare l’operato del medico di origini salentine che aveva introdotto una cura efficace contro l’infezione da Sars Cov2.

Un convegno, organizzato dal Movimento “Indipendenza” della sezione di Lecce e dall’associazione “Identità e Tradizione”, che ha avuto al centro sia contributi di carattere sanitario, giuridico, ma anche e soprattutto umani, dati oltre che dalla commemorazione del dottor De Donno dagli interventi, emotivamente strazianti, di alcuni parenti delle vittime tecnicamente del virus, ma anche e soprattutto di errori macroscopici, di insipienza, nonché di totale mancanza di umanità.

Hanno portato i loro saluti istituzionali i sindaci della città ospitante, Adriana Poli Bortone, che ha seguito interamente i lavori e ha voluto ricordare le perplessità che suscitarono all’epoca le misure approntate per contrastare la pandemia, il sindaco di Maglie, Antonio Fitto, Città della quale De Donno era originario, Vincenzo Carlà, sindaco di Lequile ed un parente del dottore, Giovanni De Donno, che hanno invece portato un ricordo personale, avendo conosciuto personalmente questo medico, trasferitosi per ragioni di studio e di lavoro a Mantova, nel cui ospedale era Primario di Pneumologia quando si diffuse la pandemia.

Ecco allora la memoria tornare a quel tardo inverno del 2020, quando le prime polmoniti bilaterali derivanti dall’infezione fecero le prime vittime proprio nella Lombardia nella quale De Donno operava. Egli intuì molto presto che una soluzione per i soggetti nei quali il virus manifestava i suoi effetti più forti poteva essere rappresentata dal cosiddetto “plasma iperimmune”, il derivato dal sangue delle persone che erano guarite dall’infezione.

Tuttavia egli manifestò a chi gli era vicino, fin da subito, come i risultati molto incoraggianti della sua cura fossero osteggiati da torbidi interessi incrociati di carattere economico, dalle inerzie, dalle vigliaccherie o dalle invidie del suo ambiente. Ecco perché egli volle definirsi, “un medico di campagna, e non un azionista di Big Pharma”, con riferimento all’agire delle grandi cause farmaceutiche e delle Istituzioni sanitarie le quali, con l’appoggio della politica, posero fin da subito, come solo rimedio possibile, quella dei vaccini. Il killeraggio mediatico che egli subì, lo portò a compiere il gesto estremo.

Rispetto ad essi, è stato ricordato come De Donno non fosse di principio contrario, ma che egli avesse al contempo forti perplessità nei confronti dei vaccini a mrna introdotti per contrastare il virus in questione, in quanto del tutto privi di sperimentazione sugli effetti avversi. Sperimentazione che, di fatto, è stata fatta ed è tuttora in corso, su centinaia di milioni di persone in tutto il mondo, con risultanze assai controverse: essi certamente non immunizzano, e in merito alla sicurezza si è verificato un numero di effetti avversi, anche molto gravi quando non letali, pari a tutti quelli riscontrati dai vaccini tradizionali messi assieme precedentemente utilizzati.

Ha diretto e coordinato il dibattito il giornalista Massimo Barbano, che ha sottolineato come una cura gratuita e che funzionava non avrebbe consentito che un trattamento sperimentale potesse essere autorizzato “per direttissima” e pure reso obbligatorio, per mezzo della firma di una liberatoria che tutto era fuorché un “consenso informato”: non era informato perché nulla si sapeva sui possibili effetti avversi di questi preparati, e non era un consenso, perché divenne, per il tramite dello strumento del “green pass”, un obbligo di fatto, basato sul ricatto.

La questione, altrettanto controversa, dei dpcm con i quali venivano decretati e prorogati ad libitum i famigerati lockdown, con annesse le misure emergenziali che tutti ricordiamo, è stata affrontata dall’avvocato Alfredo Lonoce, che ha parlato di “normalizzazione dello stato di eccezione”, che la normative in vigore prevedevano possibile solo per sciagure di carattere naturale, e comunque per un periodo limitato di tempo (12 mesi)

Il Dottor Agostino Ciucci, medico del Pronto Soccorso del “Vito Fazzi” di Lecce, ha affrontato la questione dal punto di vista più strettamente sanitario, dove sorgono le vere e proprie dolenti note: le terapie domiciliari precoci, per le quali egli si spese indefessamente, personalmente, in quel periodo, recandosi a casa di persone che lo chiamavano da ogni dove, basate essenzialmente sull’uso dei tradizionali anti infiammatori, avrebbero ridotto almeno del 70% il numero delle ospedalizzazioni.

Approccio esattamente contrario, fallimentare, quello invece proposto protocollo del Ministero della Salute, basato sulla formula “tachipirina e vigile attesa”, sul divieto di visitare i pazienti, addirittura sul disincentivo nei confronti degli anti infiammatori, sia pure sotto stretta prescrizione medica.

Il Dottor Ciucci ha poi affrontato altre questioni dirimenti, come l’utilizzo di farmaci pensati per patologie diverse, ma che avevano una reale efficacia nel contrastare gli effetti del virus Covid Sars2, per i quali si parla di “riposizionamento farmacologico”, il riferimento è all’idrossiclorochina e all’ivermectina, capaci di ridurre la carica virale.

Ed ancora, la vitamina D3, utile sempre, anche a scopo preventivo, ed integratori quali quercitina, zinco e melatonina, l’azitromicina come antibiotico, sempre e comunque sotto stretta prescrizione medica.

Arrivando al discorso relativo alla cura basata sul plasma iperimmune, l’intuizione di De Donno fu quella di utilizzare gli anticorpi messi a disposizione da chi aveva superato la malattia. Una terapia, ha sottolineato Ciucci, già adoperata nel 2003, nei confronti degli effetti del virus Sars Cov1, strettissimo parente di quello del 2020, ma questa volta inspiegabilmente osteggiata, a dispetto del fatto che tutti e 48 i pazienti sui quali De Donno l’avesse applicata a Mantova fossero guariti.

Osteggiata con argomentazioni risibili da Istituto Superiore di Sanità ed AIFA, secondo i quali essa non aveva dimostrato effetti curativi su un campione di pazienti ai quali fu somministrata a Pisa. Tale contrarietà nascondeva l’interesse a difendere, come sole opzioni terapeutiche, i costosi anticorpi monoclonali e poi i vaccini ad mrna.

E poi i contributi portati da alcuni familiari di pazienti deceduti. E’ il caso di Ermelinda Cobuzzi, figlia di Diego, morto nel 2021. Una polmonite non curata fin da subito con le terapie qui descritte determinò un aggravamento del quadro clinico, tale da non poter consentire, neppure quando fu condotto presso il “Fazzi”, il recupero.

Ma non sta solo in questo, nel dolore della perdita, il rimpianto, il dolore lancinante. “Perché a me devono essere riconsegnati solo il cappotto e gli occhiali di mio padre, come se si fosse disperso nell’oceano, vietandomi di stargli vicino finché era in vita, vietandomi pure di poterlo vedere da morto? Solo in Italia, per coloro i quali continuano a morire risultando positivi al virus, esiste questo protocollo così disumano”.

Impossibile elaborare il lutto per i familiari, anzi, tale trattamento ha determinato a catena molti casi di gravissimi traumi psichici e malattie psicosomatiche. Ermelinda sta portando avanti, in compagnia di alcuni legali, di medici, e ovviamente di altri familiari di pazienti morti, una battaglia presso varie procure italiane, affinché si faccia chiarezza su quei decessi.

“Il dottor De Donno, così come mio padre e così come tantissime altre persone, non curate con attenzione nelle prime fasi della malattia, poi in ospedale sedate con midazolam e morfina, sottoposte ad ossigenazione in quantità smodata, poi abbandonate e chiuse in un sacco nero, privati pure della sacralità della vestizione, sono dei martiri di un sistema perverso”.

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