La morte di mia madre e la mia battaglia contro la malasanità
Una storia vera accaduta a Martina Franca: quella di mia madre morta a 63 anni per una diagnosi sbagliata e scelte mediche irresponsabili

Mia madre si chiamava Laura. È morta il 10 luglio del 2003. Aveva 63 anni. Morì in seguito ad una diagnosi sbagliata, in un reparto ospedaliero dove troppo spesso la negligenza si confondeva con la rassegnazione, e la vita con l’abitudine alla morte.
Aveva una diverticolite, non una malattia rara, né incurabile. Ma in quel reparto di allora – Medicina dell’ospedale di Martina Franca – veniva trattata come se avesse una semplice bronchite. Questo dicevano. Bronchite.
Quando mia moglie, una mattina, provò a chiedere spiegazioni, dopo diversi giorni di degenza, si sentì rispondere da quel primario, il cui nome non voglio neanche pronunciare: “Signora, ci sono ragazzi più giovani con gli stessi problemi di sua suocera. È una bronchite.” Quelle parole le ricordo bene. Erano giorni in cui ero impegnato con l’organizzazione di una edizione di Portici d’Estate nella piazza antistante il Monumento dei caduti. Mia madre sembrava stare bene, ma ogni sera aveva la febbre. Un dettaglio che avrebbe dovuto allarmare chiunque, tranne chi era troppo convinto della propria infallibilità.
Quel reparto, ai miei occhi, somigliava sempre di più a un luogo dove le persone venivano abbandonate, più che curate. Mia madre – e potrebbe essere la madre di chiunque si sia trovato nella stessa situazione – si trovava lì dentro come in sospensione, tra le rassicurazioni dei medici e la realtà che solo noi, da fuori, riuscivamo a cogliere.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, e non bisogna discriminare tutto l’ospedale di Martina Franca per quel reparto a quei tempi. Ma in quel periodo, in quel reparto, con quel primario, qualcosa non funzionava. E non lo dico con rabbia, lo dico con consapevolezza.
Nella stessa stanza, poche settimane prima, era stata ricoverata mia zia. Aveva avuto un tumore al seno, ed era stata operata, lì a Martina Franca da un chirurgo che come prima non cito e non per rispetto, nonostante l’infiammazione in corso. Avrebbero dovuto prima farle la chemioterapia, poi eventualmente l’intervento. Ma la operarono subito. Fu poi un ospedale di Milano a confermare che quell’intervento era stato sbagliato. Non lo dico io, lo dice un referto di chi a Milano cercò di rimediare ad un errore grossolano. Anche lei morì. In quella stessa stanza. E anche lei non sarebbe dovuta essere lì.

Tornando a mia madre, dopo due settimane di ricovero, fu dimessa. Le dissero che stava bene. Pochi giorni dopo, però, la situazione peggiorò. Fu allora che chiamammo a casa un infermiere, Donato Ignatti, di Alberobello. È morto anche lui, ma meriterebbe un riconoscimento per tutto il bene che ha fatto nella sua vita. Dove non erano arrivati i medici, arrivò lui. Fece una semplice iniezione, ma capì subito che non si trattava di bronchite. “Portatela subito in ospedale – disse – può morire da un momento all’altro.” Quelle parole non le dimenticherò mai.
Mi precipitai. Mia madre doveva essere operata d’urgenza, ma a Martina Franca non c’era – allora come oggi – una sala rianimazione funzionante. Eppure, un chirurgo la voleva comunque operare. Perché? Perché era abituato a decidere così, anche se sapeva benissimo che la rianimazione era fondamentale in casi come quello. Alla fine, decidemo il trasferimento al Moscati.
Ricordo che prima di entrare in sala operatoria, mia madre si tolse tutto l’oro e me lo consegnò. Disse a mia moglie di prendersi cura di mio padre. Come se sapesse. E mia moglie lo ha fatto, con dignità, ogni giorno. Due giorni prima della sua morte si era ricordata del mio compleanno. Mi mandò dei baci con la mano da dietro il vetro. Non dimentico niente. Non dimentico nemmeno quello che successe dopo.
Morì il 10 luglio. Non per una malattia incurabile. Ma per errori che potevano essere evitati.
C’era rabbia, in quei giorni. Rabbia vera. Non di quella che sfuma con le ore, ma di quella che ti rimane dentro e ti lacera, che ti fa svegliare nel cuore della notte a fissare il soffitto. Spaccavo tutto quello che avevo attorno, perché non riuscivo ad accettare che fosse successo davvero. Che mia madre fosse morta così. Non per un destino inevitabile, ma per superficialità. Per incompetenza. Per arroganza.
Provai a fare quello che in quei casi ci si illude possa portare giustizia: mi rivolsi a un avvocato. Poi a un perito di parte. Feci tutto quello che un cittadino fa quando crede ancora che la verità possa emergere, che ci sia un modo per far valere le proprie ragioni. Ma dopo qualche mese cominciai a capire che contro la malasanità non c’era difesa. C’erano muri. C’erano archivi. C’erano silenzi.
Ricordo bene quando mio padre, con il tono di chi aveva vissuto abbastanza per sapere come gira il mondo, mi disse: “Devi fermarti. Perché rischieremmo, andando in ospedale per qualsiasi motivo, di pagarne le conseguenze.” Aveva ragione. Ma non l’ho mai accettata, quella rassegnazione. L’ho rispettata, perché fu lui a chiedermelo. Ma dentro di me ho continuato la mia battaglia. In un altro modo.
Obbedii a mio padre. Non feci causa. Ma da quel momento, il mio modo di fare giornalismo cambiò. Quel dolore divenne un filtro, un faro, un obbligo morale. Cominciai a occuparmi della sanità con altri occhi. Non più solo per raccontare.
Ma per denunciare. Per mettere nero su bianco ciò che vedevo, ciò che mi veniva segnalato, ciò che scoprivo. Iniziai a scrivere articoli che non facevano sconti a nessuno. Inchieste, testimonianze, fatti. E con quegli articoli arrivarono anche le prime querele. Ma non mi hanno mai fermato. Anzi.

La mia professione, da allora, ha preso una direzione precisa. È diventata un argine contro l’ipocrisia. Contro le gonnelle stirate dei sottosegretari che vengono a fare passerelle tra i corridoi degli ospedali con i fotografi al seguito. Contro i comunicati stampa patinati. Contro chi parla di sanità pubblica come se fosse solo un argomento da campagna elettorale. Non è questione di partiti. È questione di onestà. Di facce. Di coscienze.
Esiste malasanità, certo. E non serve fare esempi lontani. Basta guardarsi intorno. Se una donna di poco più di cinquant’anni viene operata, e la mattina dopo dovrebbe essere dimessa ma nella notte muore per un’embolia, un dubbio dovrebbe venire. E invece no. A chi resta si racconta un’altra storia. La più comoda. La più facile da digerire. Proprio come fecero con noi. Lo fecero con mia madre. Lo fanno ancora. A tanti.
Il problema, forse, è che non ci sono abbastanza denunce. Non c’è abbastanza voce. C’è paura. E c’è un sistema che tende a far sentire i familiari degli ammalati come fastidi. Come se fossero spettatori molesti in una recita già scritta. C’è un tribunale per gli ammalati, certo. Ma solo sulle carte.
E poi ci sono i casi in diversi ospedali in cui vengono sbagliati gli interventi, e il giorno dopo il paziente viene riaperto e rioperato. E ci si mette una pietra sopra. Come se nulla fosse. Succede anche questo. Non in un ospedale solo. Ma ovunque.
Non voglio dire che siano tutti uguali. Non lo sono. Esistono medici bravi. Onesti. Capaci. Ne ho conosciuti, ne conosco in ogni città pugliese, dovendo collaborare come giornalista con una testata televisiva nazionale. Gente che lavora con passione e rispetto. Ma non sempre, anzi quasi mai, sono quelli che comandano. Non sempre chi dirige un reparto è il più competente. Anzi. A volte, è il contrario.
Negli anni ho imparato a convivere con questa ferita. Non si è mai chiusa. Si è solo fatta più silenziosa. Ogni 10 luglio, però, torna a bruciare come allora. È come se in quel giorno rinnovassi una promessa. Senza parole, senza cerimonie. Ma dentro. Un patto con me stesso, con il dolore, con la verità.
Non mi sono mai messo a contare quante inchieste ho scritto sulla sanità da allora. Non so più quante testimonianze ho raccolto, quanti ospedali ho raccontato, quanti casi ho denunciato. Non mi interessa il numero. Mi interessa che la gente abbia cominciato a capire che tacere non serve. Che non bisogna vergognarsi di dire la verità, anche quando brucia. Soprattutto quando brucia.
Spesso le mie inchieste hanno portato risultati concreti. Hanno smosso acque stagnanti, costretto qualcuno a spiegare, fatto accendere riflettori dove c’era buio. E continueranno a farlo. Perché la verità, quando è scritta con onestà, prima o poi lascia il segno.
La vita, in modo strano, mi ha costretto a conoscere un’altra sanità. Quella del Nord. Per via di un tumore al pancreas che mi ha colpito qualche anno fa – e che, grazie a Dio, ho affrontato e superato – sono stato curato a Verona, all’ospedale Sacro Cuore di Gesù di Negrar. Un’altra dimensione. Persone, medici, infermieri, reparti, pronto soccorso. Tutto funzionava.
Da allora continuo ad aiutare chi ha vissuto, o sta vivendo, quello che ho vissuto io. Persone di ogni età, che all’improvviso si ritrovano catapultate in un problema nuovo, grande, sconosciuto. Le accompagno, le ascolto, cerco di orientarle verso le scelte giuste. E lo faccio anche attraverso un’associazione di Reggio Emilia che si occupa proprio di tumori al pancreas. Perché non si deve mai restare soli. E chi ci è passato, ha il dovere di dare una mano.
A Negrar non si paghi di più. La sanità, quella pubblica, lì costa esattamente quanto in Puglia. Uguale a Bari, uguale a Taranto, Lecce, Foggia. E allora viene naturale chiedersi: perché lì sì e qui no?
Me lo sono chiesto e una risposta me la sono data. In certe regioni si lavora per i cittadini. In altre, in certi ospedali, per interessi diversi. Per chi amministra, per chi ha amministrato, per chi vive la sanità non come una missione ma come una riserva di caccia. E la differenza non la fa il colore politico, ma l’onestà. La visione. La responsabilità.
E non è questione di generalizzare. Perché in politica, anche qui, c’è chi lavora davvero. Chi, senza riflettori, porta avanti il proprio impegno. Chi non si presenta quando arrivano le telecamere, ma c’è quando la gente soffre e ha bisogno. Di queste persone conosco nome e cognome. E credo li conoscano anche i cittadini. Loro non devono dimostrare niente: basta guardarli lavorare.
La mia, in fondo, è una testimonianza. È la storia di mia madre, morta a Martina Franca. Ma è anche la storia di tanti padri, di tante madri, sorelle, di figli che hanno perso la vita in altri ospedali pugliesi. A Taranto. A Brindisi. A Lecce a Foggia e così via. Perché la malasanità non ha confini. Non si ferma in un reparto. Non risparmia nessuno.
Ecco perché, da ventidue anni, non ho mai smesso di raccontare. Non perché pensi di cambiare la Sanità Pugliese. Ma perché il silenzio mi farebbe sentire complice. E perché ogni volta che scrivo, sento ancora la voce di mia madre che, due giorni prima di morire, mi mandava baci da dietro un vetro ricordandosi del mio compleanno che era quattro giorni prima del mio.
Se scrivo, è per lei. Ma anche per tutti quelli che oggi non hanno voce.
Antonio Rubino è giornalista, editore e direttore del Gruppo Puglia Press e de La Voce del Popolo. Esperto di comunicazione e organizzatore di grandi eventi, ha collaborato anche con la RAI. Leggi la biografia completa




