Stadio della Roma tra interrogatori e ladri del futuro
ROMA- Ammettiamolo: nessuno di coloro i quali hanno a lungo combattuto da queste pagine per impedire la distruzione delle architetture dell’ippodromo di Tor di Valle a Roma avrebbe mai potuto immaginare che, quando tutto sembrava perduto, dei magistrati si sarebbero posti delle domande sull’ormai famigerata storia del nuovo stadio per la A. S. Roma e sul conseguente abbattimento di quell’opera di Julio Lafuente. Lo abbiamo scritto a suo tempo e lo ribadiamo adesso, subito, con forza e con chiarezza come non mai: qui non è in discussione la simpatia o meno per una squadra di calcio, la Roma; qui, al contrario, si vuole porre l’attenzione su quello che è il comportamento di taluni rispetto alla tutela del patrimonio culturale della Nazione. E queste ultime parole non sono neanche casuali perché con esse vogliamo indicare la fonte prima che ha guidato e guida ognuna delle nostre considerazioni passate e presenti. Le parole sono quelle, infatti, dell’articolo nove della nostra Costituzione: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione» (https://www.senato.it/1025?sezione=118&articolo_numero_articolo=9).
In questi giorni d’infuocate polemiche mediatiche fra i molti nomi sembra, però, che non se ne voglia fare almeno uno, quello dell’ex ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini. In forza di quell’articolo e con esso di altri ancora della Carta Costituzionale vorremmo chiedere all’ex ministro perché durante il suo mandato non abbia dato una risposta chiara alla questione stadio e tanto più (così ci risulta) a ben due interrogazioni parlamentari aventi come oggetto proprio quella vicenda. Un senatore della Repubblica ci informa che l’uso delle non risposte pare sia un esercizio che, seppure “scortese istituzionalmente”, è diffusamente praticato dai politici nostrani. Ci chiediamo, quindi, se l’allora ministro Franceschini fosse realmente consapevole della gravità e serietà dell’affaire stadio. Viene difficile pensare che egli, però, fosse davvero all’oscuro di tutto visto che la moglie, capogruppo PD al comune di Roma, aveva deciso di appoggiare la costruzione di quella struttura sportiva, lì dove era stato proposto, in un modo dai toni davvero pittoreschi ovvero sull’onda dell’hastag “Famolo ‘sto stadio”.
A dire il vero gli anni in cui tutta la procedura ha avuto il suo sviluppo burocratico principale sono stati attraversati anche da quella discussione storico-critica in seno allo stesso MiBACT (in alcune Facoltà di Architettura la questione era stata, però, già ampiamente affrontata e risolta) relativa al vasto patrimonio architettonico anche della più vicina modernità. La questione si risolveva in domanda: se fossero cioè, nello specifico, anche le architetture realizzate negli anni Sessanta del secolo scorso motivo d’interesse culturale e quindi di tutela anche quella più rigida.
Non sarà stato facile, solo qualche anno fa, per i diversi, forse troppi (dato l’arco temporale strettissimo degli avvenimenti) soprintendenti che si sono succeduti nella direzione di quella che all’epoca si chiamava la Soprintendenza di Roma. Molti di costoro, infatti, prossimi alla pensione, si son trovati a decidere di imporre un vincolo su un edificio costruito per le Olimpiadi di Roma del 1960, corrispondente circa cioè agli anni in cui essi stessi conseguivano le loro lauree in Architettura. Nel difficile tentativo di far comprendere quest’aspetto non vogliamo per niente giustificare l’operato di quei soprintendenti certo è, però, che la cronaca di questi giorni obbliga a riconsiderare, da una parte, il contesto in cui quei dirigenti del MiBACT si son trovati ad operare e dall’altra, invece, ad apprezzare il coraggio della soprintendente Margherita Eichberg che, a differenza, dei suoi tanti predecessori il vincolo ha voluto in modo chiaro.
E proprio alla luce di quanto sta emergendo oggi verrebbe da porsi almeno due domande: quali e quante pressioni dirette ed indirette hanno avuto i soprintendenti perché il vincolo sull’ippodromo di Tor di Valle non fosse imposto in modo chiaro? Furono davvero liberi? Supportati dal MiBACT? E allora comprendiamo che il non intervento diretto dell’ex ministro Franceschini non fu solo una “scortesia istituzionale” ma qualcosa di più e, a nostro parere, più grave dal punto di vista politico. Nel momento in cui l’ex ministro non fece sentire la sua voce abbandonò quei soprintendenti non solo a se stessi ma anche a quel marasma di interessi economici che ruotava e ruota attorno alla costruzione di quello stadio proprio lì dove l’imprenditore Parnasi lo vorrebbe. Un intervento chiaro, deciso, diretto dell’ex ministro, con la stessa fermezza che egli applicò, ad esempio, ai lavoratori in sciopero del Colosseo sarebbe stato più che opportuno. Ci sfugge, probabilmente, qualche passaggio di questa vicenda; di sicuro, però, non vogliamo affatto pensare che quell’ex ministro abbia voluto dare prova della sua forza con i “deboli” (come i lavoratori del Colosseo) e della sua debolezza con i “forti” (come Parnasi). Forse, però, tutto si spiega nel tweet di commiato di Franceschini quando, lasciando la sede del MiBACT solo qualche settimana fa, ha affermato: «[…] Tutto pronto per chi arriverà a guidare il ministero economico più importante del Paese». Il «ministero economico».
Questa vicenda dello stadio, e con essa la questione del vincolo prima mancante e poi mancato che ha, fuor di metafora, invaso a lungo le pagine di tutti i giornali cartacei, web, televisivi, i social, sembra essere curiosamente sfuggita anche al Consiglio Superiore dei Beni Culturali molto vicino al ministro. Per quello che risulta non abbiamo trovato notizia di una presa di posizione netta relativa proprio alla tutela dell’ippodromo di Tor di Valle e quindi alla costruzione di quello stadio. Circa un anno fa, l’incatenamento del sindaco di Lucera (Foggia) alle mura di quella città per denunciare delle stesse lo stato di abbandono determinò un più che giusto intervento di quel consiglio. Nessuno qui vuol proporre confronti azzardati ma viene naturale chiedersi se esistano beni culturali di serie A e altri di serie B e, meglio, se alcuni di essi abbiano il solo torto di appartenere ad un periodo storico estraneo alla formazione culturale di alcuni dirigenti.
Quest’ultima vicenda, in effetti, si porta in seno un’altra questione e quindi almeno un’altra domanda. La riforma Franceschini ha generato quella figura, a tratti mitologica, del soprintendente olistico di colui, sintetizzando al massimo, che deve saper fare un poco di tutto ed essere un poco di tutto (archeologo, architetto, ingegnere, storico dell’arte e, se necessario, fra le tante opzioni, anche cuoco, ad esempio, perché no?). Quella riforma, però, non ci offre nessuna garanzia rispetto al fatto che un soprintendente possa essere anche “un poco o tanto di tutti” o per dirla in una “indipendente dal potere politico”.
Nel caso dello stadio, il vincolo Eichberg a tutela dell’ippodromo e delle sue tribune è stato valutato da una commissione in cui l’unico architetto era proprio quel soprintendente Prosperetti che molti ritenevano, già prima della riunione di quella commissione, non favorevole alla conservazione di quell’impianto sportivo progettato da Lafuente. I fatti hanno confermato quelle supposizioni. Senza nulla togliere agli altri componenti, probabilmente, la presenza di qualche architetto in più in quella commissione avrebbe aiutato (anche in forza dei pareri dei comitati tecnico-scientifici ministeriali favorevoli alla tutela e vincolo delle tribune dell’ippodromo) tutti a muoversi nella direzione di una maggiore trasparenza e del confronto tanto più alla luce di quello che era ed è il dibattito sulla tutela dell’architettura moderna. La raccomandazione di Apelle al ciabattino «Ne sutor ultra crepidam» -frase che volutamente non traduciamo perché “olisticamente” tutti almeno nel MiBACT devono conoscere il latino- forse, andrebbe tenuta a mente da parte di molti. Qui non è solo il problema di avere le persone più preparate e competenti perché, anche ad averle, esse non sarebbero di alcun aiuto se fossero assegnate a incarichi inappropriati in quanto lontani dalle loro competenze. Se ritenete che “olisticamente” un dentista possa eseguire un’operazione anche al cuore, siete liberi di farlo così come di conoscere o meno le lingue morte; nessuno vi criticherà, ma quella soluzione olistica non offre proprio la migliore garanzia possibile al paziente. Se, poi, quella in gioco fosse la vostra salute, la domanda diventerebbe retorica.
Quello che accadrà allo stadio non lo conosciamo naturalmente. Ci auguriamo, però, che anche altri si pongano domande; e quando scriviamo “altri” non alludiamo solo ai magistrati ma soprattutto agli storici che possano individuare le responsabilità “politiche” di coloro che hanno lasciato che si verificassero eventi che si stanno rivelando ricchi di sfumature e ombre. Per evitare tutto questo sarebbe bastato fare appello solo alle coscienze e al qui citato articolo nove della Costituzione.
E’ con timore, però, e non riusciamo affatto a nasconderlo, che poco fa abbiamo evocato il futuro, quello che ci hanno rubato con disattenzioni, dimenticanze e tutto il contenuto procedurale di un infelice prontuario da politicanti senza prospettive. Non si può, infatti, nascondere che gli effetti di tutto quello qui raccontato stanno generando un più o meno latente proselitismo. Un caso simile a quello dello stadio a Roma sta verificandosi, per esempio, anche a Lecce, dove sotto gli occhi della locale soprintendenza, una sciagurata (culturalmente), trasversale (politicamente) classe di amministratori (quelli di questi ultimi venti anni e fino ai nostri giorni) distruggerà a breve una parte importante dei resti di un antico convento francescano per far posto a un’architettura che nasce già vecchia perché ricorda fin troppo la più discutibile edilizia degli anni Ottanta del secolo scorso. E tutto questo alla luce del fatto che reimpiegheranno una tettoia di fine Ottocento decontestualizzandola: in sostanza vogliono sbandierare la tutela di un passato (la tettoia, appunto) distruggendone, però, un altro ancora più antico (i resti archeologici del convento). Pensano di soddisfare la nostra sete di cultura e di storia ritenendo che nessuno fra noi sia in grado di distinguere l’acqua dalla sabbia, quella che, invece, loro ci vorrebbero far bere.
A dire il vero, quello appena raccontato non è l’unico paradosso di questi giorni convulsi. Stiamo, infatti, assistendo, in perfetto italico stile, all’interno del MiBACT, a una sorta di autoriciclaggio senza pudore dei più accesi sostenitori della riforma Franceschini. Correttezza istituzionale vorrebbe che costoro, cambiato il ministro, facessero un passo indietro (e qualcuno pare lo abbia fatto già) altri invece amano troppo la poltrona. Un evento simile accadde subito dopo l’ultima guerra mondiale. In quel caso, la tragedia bellica, aveva defalcato i quadri dirigenziali e accettare anche coloro che fino al giorno prima sollevavano il braccio in segno di saluto, era un necessità perché il Paese doveva risorgere. Oggi, fortunatamente, la situazione è diversa e non è affatto necessario attingere alle liste di coloro che, già ultras di un’improvvida riforma, sono di fatto affidabili tanto quanto il Truffaldino di goldoniana memoria.
Fabio A. Grasso
foto di copertina tratta da Internet