Parla l’avvocato Salvagni: «La verità giudiziaria va cercata senza paura e senza patemi». Massimo Bossetti non è il “mostro” che la stampa ci ha propinato
Gogna mediatica. Tutto ruota intorno a questo fenomeno per il quale il social, divenuto un moderno mezzo di informazione (con i suoi pro e i suoi contro), ha contribuito tantissimo. Quando la gogna si insinua in un percorso giudiziario, è allora che ci ritroviamo difronte a due processi paralleli: quello in un’aula di Tribunale e quello mediatico che non lascia scampo.
La rete costruisce eroi, li demolisce e costruisce mostri. E quando per la rete sei un mostro, lo resti per sempre, anche se la legge decreta la tua innocenza.
Ne abbiamo parlato su queste pagine relativamente ad altri casi giudiziari, ne continueremo a parlare, puntando su una sorta di “controinformazione” scevra da qualsiasi forma di ideologia o asservimento, perché crediamo nella verità, quella che rende liberi.
Il caso Bossetti è l’apoteosi della gogna mediatica. Massimo Bossetti è stato condannato in primo grado all’ergastolo, poiché accusato della morte della piccola Yara Gambirasio, la tredicenne scomparsa il 26 novembre del 2010 da Brembate e ritrovata morta tre mesi dopo, a febbraio 2011.
Bossetti, un muratore incensurato, oggi 47enne, fu arrestato nel giugno del 2014, ed è considerato l’unico colpevole. Il caso, come abbiamo già detto, ha raggiunto una rilevanza mediatica incredibile, riconducibile anche ad altri casi simili, come ad esempio quello della 15enne di Avetrana, Sarah Scazzi.
Il tutto, come ci spiega l’avvocato Claudio Salvagni, legale difensore di Massimo Bossetti, parte da un tweet di un Ministro (ecco il ruolo dei social network) che avrebbe dato proprio un’impronta a questo processo. «Da lì in avanti è successo di tutto e di più – spiega Salvagni – la cosa forse è passata anche in silenzio, ma in udienza abbiamo sentito raccontare veramente delle cose da accapponare la pelle e al limite della falsa testimonianza, della calunnia e della diffamazione. Vogliamo parlare dei famosi furgoni che dovevano essere dell’assassino e che sono stati montati in un video per esigenze di comunicazione tra l’altro, dai Ris in accordo con la Procura. Basterebbe già questo per dire che questo processo è tutto anomalo».
Esigenze di comunicazione dunque, in netto contrasto con la realtà processuale. E questo perché? Ci poniamo sempre lo stesso interrogativo: cosa fa davvero notizia e qual è il vero senso di giustizia in Italia? Da quello che ci riferisce l’avvocato Salvagni, la giustizia in Italia risponde non ad esigenze di giustizia, ma di giustizialismo. Si cerca necessariamente un colpevole per accontentare l’opinione pubblica, oramai deviata da una cattiva informazione. «Si costruisce una commedia che deve corrispondere e stare su con degli attori che recitano e imbastiscono delle cose per esigenze di comunicazione. Questo è, e bisogna prenderne atto – continua l’avvocato Salvagni – Per prima la stampa, per primi i giornalisti, che dovrebbero essere coloro che fotografano la situazione e la riportano ai cittadini per essere obiettivi, per fargli capire cosa succede, ma se per prima la stampa è asservita al potere, dove vogliamo andare? Manca del tutto una comunicazione seria, un’informazione seria e questo è un dato oggettivo – prosegue ancora – Io che ho partecipato al processo come difensore, posso dire che del processo è uscito si e no il 20%, scritto da pochissimi. Un colonnello comandante del Ros, è venuto in udienza a dire il falso quando parlava dell’erba tenuta nella mano della povera Yara. Alla domanda se l’erba fosse radicata al suolo oppure no, ha risposto ‘si’. Ma perché? Perché con quel sistema si poteva ancorare il cadavere a quel terreno, la ragazza sarebbe oggettivamente morta lì. Poi però, nell’udienza successiva, un medico legale primo e unico che ha messo le mani sul cadavere, ha detto che l’erba non era radicata al suolo e ci sono le foto a dimostrarlo. Perché è stato fatto passare questo messaggio, dicendo che lui stesso aveva delle foto aggiuntive dove si vedeva l’erba radicata al suolo? Questa contraddizione non è uscita sulla stampa, eppure i giornalisti c’erano. Io credo che prima di fare giudiziaria bisognerebbe domandarsi se si vuole essere dei cittadini o dei sudditi. Se vogliamo essere cittadini abbiamo bisogno di una informazione seria, di una informazione corretta. Né pro difesa, né pro Procura perché la ricerca della verità deve essere qualcosa di più alto. Non è un braccio di ferro, non è un derby. E’ la ricerca della verità. La verità giudiziaria va cercata senza paure, senza patemi».
E a proposito di ricerca della verità, l’avvocato Salvagni continua ad invocare la concessione di una perizia. A quanto pare non è mai stata fatta una perizia per accertare il dna, ma solo consulenze di parte che, in quanto tali, hanno la stessa dignità della difesa. «Chi ha paura di fare questa perizia? Perché questo ostracismo nei confronti di questa perizia? La perizia è stata chiesta dal primo momento, perché ci sono delle anomalie talmente grandi che mi fanno sospettare ci sia qualcosa di molto losco – e prosegue – Difronte a questo timore, al timore che venga comminato un ergastolo troppo allegramente e soprattutto ad un innocente. Una cosa che farebbe orrore. Perché temere questa perizia? Perché avere paura di un accertamento ulteriore di qualche migliaio di euro a fronte di milioni di euro spesi. Cosa cambia un mese di tempo in più? La domanda è senza risposta».
Questo lascerebbe pensare, perché se è l’imputato a chiedere la perizia, questo già denota la buona fede: «Lui mi ha detto che vuole questa perizia perché non ha mai visto, conosciuto questa ragazza. Figuriamoci se l’ha uccisa. Nel momento in cui è l’imputato a chiedere la perizia o è un pazzo o un innocente».
Secondo quanto ci dice l’avvocato Salvagni, molti detrattori sostengono che Bossetti chieda la perizia perché i reperti sono stati consumati, ma a quanto pare ciò non corrisponde a verità, in quanto (come confermato anche dal Ris), i reperti ci sono ancora, e si potrebbe benissimo condurre l’accertamento.
Ma chi è davvero Massimo Bossetti? Quello che la rete e l’opinione pubblica oramai concepisce come un mostro? Cosa non è stato mai detto?
Massimo Bossetti, come ci racconta il suo avvocato, è un uomo assolutamente normale, mite, un padre di famiglia, papà di tre figli, un lavoratore che non ha mai avuto problemi con la giustizia. La sua era una famiglia serena, non manifestava alcuna problematica. Un uomo normale che si dedicava alla casa e al lavoro.
Un uomo normale che urla la sua innocenza, che chiede una perizia e che improvvisamente diventa un mostro. Se nel corso del processo dovesse emergere la sua innocenza e dovesse essere assolto, potrà mai riscattare la sua dignità? «È impossibile riscattare la dignità se dovesse essere assolto. È stato massacrato a tal punto che credo che il suo cognome verrà associato per sempre, insieme ai suoi figli, a questo processo, anche se fosse scagionato. Anche da assolto, la gogna mediatica sarà indelebile. Non c’è riscatto né per lui né per i suoi figli». È questa l’opinione dell’avvocato Claudio Salvagni, il quale sostiene anche che non sono state osservate quelle minime regole di rispetto civile che dovrebbero essere garantite a qualsiasi persona che è considerata costituzionalmente non colpevole fino a sentenza definitiva. Ma nel corso del processo abbiamo assistito alla divulgazione di diverse notizie, effettivamente non rilevanti ai fini processuali, come ad esempio le sue origini, questioni legate al suo padre biologico. «Cosa importa alla gente di tutto ciò? È puro gossip».
Si è detto poco su chi fosse davvero Massimo Bossetti, su che padre e marito fosse o di quanto amasse la sua famiglia. Si è teso però a sottolineare una identità da predatore sessuale, che faceva ricerche pedopornografiche, quando relativamente alla questione pedopornografia, in udienza vi fu una precisa domanda della difesa ai consulenti del Pubblico Ministero, ovvero capire se nella cronologia del computer di Bossetti vi fossero ricerche di questo tipo e la risposta fu negativa. «Una informazione distorta, nonostante la risposta fu che nel computer di Bossetti non vi erano né ricerche né materiale pedopornografico».
Come precisa l’avvocato Salvagni, non si tratta della difesa a tutti i costi di un cliente. Nel caso di specie, si rischierebbe di condannare un innocente (è tale in assenza di condanna definitiva) all’ergastolo, non tenendo conto della condanna più grande già inflitta a lui, alla sua famiglia, ai suoi figli: l’essere messi alla gogna. E per quel ‘giudizio’ non esistono purtroppo assoluzioni.