Bari- Il restauro del bastione di Santa Scolastica. Un esempio virtuoso.
Ci sono molti modi di raccontare l’architettura di una città, di un paesaggio naturale e fra di essi anche l’attuazione di un progetto (architettonico) può diventare un modo alternativo di racconto. In sintesi nel momento in cui un progetto si insinua fra le pieghe della storia e del contemporaneo vivere delle nostre città (e non solo) crea racconti, tesse storie, accende luci più o meno tremule su tasselli di muri verticali ed orizzontali che se così non fosse passerebbero addirittura inosservati anche al fruitore urbano meno distratto. Oggi raccontiamo di un progetto di restauro architettonico a Bari, tutt’ora in corso, quello cioè relativo al bastione di Santa Scolastica. Questa denominazione scaturisce dal vicino convento delle monache benedettine (Scolastica era appunto la sorella di San Benedetto) oramai da tempo destinato ad usi non più religiosi. Autore del progetto per conto del Segretariato Regionale del MiBACT (Ministero dei Beni Ambientali Culturali e Turismo) diretto dalla dott.ssa Eugenia Vantaggiato, è in particolare l’architetto Francesco Longobardi.
In un giorno di Ottobre, quando l’estate pugliese regala ancora la sua luce ed il suo vento all’incipiente autunno, è stato possibile visitare il cantiere e seguire l’evoluzione dell’idea del progetto attraverso le parole di chi lo ha ideato ed adesso ne segue la nascita come direttore dei lavori. Il bastione -quello cinquecentesco costruito al tempo di Bona Sforza (Vigevano, 2 febbraio 1494 – Bari, 19 novembre 1557) – è la parte già restaurata dell’intero progetto ed è già fruibile al pubblico; esso è direttamente collegato con l’ex convento delle Benedettine ma anche con quanto resta dell’attiguo convento francescano di San Pietro. Di quest’ultimo restano pochissimi frammenti fuori terra (il chiostro) e soprattutto gli ambienti sotterranei (oggi scoperti); tutto ciò genera un interessante vuoto urbano che rende irresistibile la tentazione di ricorrere ad un concorso di progettazione. Il convento delle Benedettine invece ha una struttura più integra e riconoscibile nelle sue diverse fasi costruttive saggiamente messe in evidenza durante i restauri. Lo spazio del convento femminile ha risentito, come si accennava all’inizio, dei passaggi pesanti della storia più recente: non solo varie destinazioni d’uso ma anche approcci progettuali completamente diversi quando cioè in particolare la sensibilità per la complessa materia del restauro architettonico era completamente differente dall’attuale. Come non notare i tratti di partitura architettonica nel chiostro francescano sostituiti dal Genio Civile di un tempo quando si pensava che il cemento armato fosse l’unica soluzione strutturale, estetica e storica in grado di soddisfare le esigenze della tutela e della valorizzazione? Oppure ancora la ripida rampa, sempre in cemento armato, che dalle coperture dell’ex convento femminile conduce alla sommità del bastione? L’intero spazio oggetto del restauro verrà destinato ad ospitare il museo archeologico provinciale di Bari e questo di fatto comporta una complicazione in fase progettuale per diverse ragioni che ai più sfuggono forse. Garantire un’adeguata fruibilità a tutti (disabili e non) non è infatti cosa da sottovalutare.
Non è solo un problema pratico legato alle pendenze, in esso è da leggersi in filigrana il principio base che anima il MiBACT ovvero far conoscere e diffondere la cultura e, come si accennava, rendere accessibili parti di una storia che era di pochi ed adesso, attraverso proprio il restauro, è di tutti. Anche il convento benedettino aveva un chiostro interno (ne sono segnalati due in effetti, qui si fa rifermento al maggiore) che in questi ultimi anni è stato oggetto di studi ulteriori e, meglio ancora, di scavi archeologici che hanno portato alla luce tratti di mura più antiche con enormi conci. Al centro del giardino il tempo ha regalato poi alte palme da considerarsi veri e propri monumenti vegetali oggetto di una riflessione specifica: conservarle o toglierle per meglio tutelare le sottostanti più antiche mura urbane? Queste sono le domande che ci si pone durante un restauro in quanto quegli alberi sono indicativi essi stessi di un passato così come la grande scala interna in legno e metallo realizzata in un intervento di restauro risalente agli anni Ottanta circa del secolo scorso dagli architetti Giuseppe Radicchio ed Angelo Ambrosi. E qui viene fuori un altro aspetto, chiamatelo anche se volete, una nuova componente della complessità del progetto, quella dell’intervento critico o meglio del restauro critico che comporta scelte progettuali significative a volte drastiche. Non sempre questi lacerti del tempo hanno un valore artistico/architettonico particolare però è corretto, almeno metodologicamente, conservarne l’esistenza tanto più che nel nuovo progetto una scala è necessaria proprio in quello stesso punto. E poi, non lo si può nascondere, quella scala sembra essere figlia, con un confronto anche azzardato, di quell’interessante, affascinante gusto tipico degli anni Settanta, o almeno lo suggerisce fortemente, così come i celebri pantaloni a zampa d’elefante (o alla Celentano) che imperavano proprio in quegli anni. Quest’ultimo aspetto ne nasconde di fatto un altro probabilmente ancora più importante, accattivante per la natura dinamica, vorremmo dire, che lo contraddistingue: un restauro architettonico impostato secondo questi criteri e scelte inevitabilmente finisce con l’aprire le porte ad una logica formale diversa, più variegata, contemplativa di esigenze e messaggi visivi di natura diversa e a tratti anche contrastanti. L’estetica che ne scaturisce è quindi chiusa in un continuo rimando di tempi e riferimenti formali rispetto ai quali l’unità compositiva non è più l’obiettivo principale. La scoperta di parti di mura urbiche antiche così come quella di un tratto di pavimentazione stradale (emersa in un ambiente coperto con una alta volta) obbligano l’osservatore a fare un altro viaggio, questa volta non nella natura del tempo ma in quella della definizione base di spazio ovvero quella del dentro e del fuori, dell’interno e dell’esterno. Crea sempre una curiosa sensazione constatare di trovarsi in uno spazio chiuso che un tempo era invece all’aria aperta, spazio urbano, e che il pavimento su cui l’osservatore ha i piedi era un tempo quello di una strada pubblica. E’ quel senso di inclusione ed incapsulamento che trova forse il riscontro più diretto in un messaggio lasciato in una bottiglia: la si apre, lo si srotola e se ne legge il messaggio, lì espresso attraverso una calligrafia, qui attraverso invece la tessitura e la qualità dei conci. Come detto tutto lo spazio del progetto, attraverso una attività di indagine fatta a partire dai rilievi architettonici e ricerche archivistiche, regala una dimensione nuova che è quella del sopra e del sotto. Salire una scala nella vita quotidiana è considerato in genere una cosa noiosa e faticosa perché fa perdere tempo che potrebbe essere impiegato altrimenti. Il sopra ed il sotto che si sta evidenziando attraverso il progetto dimostrerebbe invece come anche il prosaico salire – operazione banale, stantia di pensiero ed immagini nella sua scontatezza – in effetti sia una reale riappropriazione del tempo e delle sue funzioni. Andare sopra e sotto, in alto e in basso, dentro quell’edificio significa in sostanza andare avanti e dietro nel tempo fino addirittura alle vertigini in alcuni casi. A questo proposito vengono in mente le parole attribuite ad A. Aalto, raffinato architetto finlandese che con una singolare originalità nel secolo scorso pose nuovamente l’attenzione del fare architettura da un punto di vista umano prima di tutto, distante a tratti cioè da quelle coeve speculazioni che troppo si erano allontanate dalla “condizione umana”. Per questo maestro, si diceva, amante dei dettagli esecutivi, il rapporto fra uomo ed architettura passava anche attraverso il modo di camminare del fruitore di spazi e questo nel senso più ampio del termine e cioè anche attraverso il suono che si produce per esempio nel camminare quando l’incedere corrisponde ad un suono, ad una sensazione, ad un pensiero. Calpestare un prato ha un suono diverso da quello prodotto muovendosi su un pavimento fatto con ciottoli di fiume. Sensazioni visive ed acustiche si fondono offrendo a tratti una chiave di lettura inedita di ciò in cui viviamo. Gli occhi e la mente di ciascuno di noi hanno già un modo singolare e personale di sedimentare attraverso le immagini lo spazio e forse, con maggiore efficacia, la stessa sensazione può essere ricostruita anche attraverso gli effetti del nostro essere presenti mentre cioè si cammina, si respira, ci si ferma. Quando poi si uniscono queste due componenti, quella visiva ed acustica, si tocca come si diceva la vertigine ovvero quel curioso corto circuito che, seppure per un istante, rassegna la mente ad una condizione di perdita. Pare che questo sia il sentire contemporaneo. Come si accennava all’inizio i lavori sono ancora in corso e solo una parte è già terminata e visitabile anzi vivibile, quella cioè più propriamente del bastione cinquecentesco. L’ingresso a questo tratto di fortificazione avviene dal lungomare Augusto Imperatore in corrispondenza di quella che un tempo era una cannoniera (finestra destinata ad ospitare un cannone e più in generale una postazione difensiva) trasformata (non in occasione di questo restauro) in porta. Lo spazio attorno all’ingresso è caratterizzato da giardini che costeggiano dall’esterno questo tratto di mura; essi, e questo è il primo elemento interessante, vengono interrotti trasversalmente da un’area a pianta trapezoidale dalla pavimentazione bipartita (grandi riquadri in battuto di calcestruzzo intervallati da sottili fasce di legno di teak nella parte prossima alla strada; a ridosso della porta invece si hanno solo doghe della medesima essenza) che collega la porta d’ingresso (punto più stretto del trapezio) al marciapiede sul lungomare. Si tratta di un ampio spazio di forma non casuale che ripropone infatti materialmente il campo visivo e di tiro della cannoniera stessa. A ridosso dell’ingresso, sui margini del primo tratto di trapezio, sono collocati, uno per lato, due lunghi, utilissimi sedili con un rivestimento in lastre di marmo grigio foussana con finitura a righe. L’ingresso è sottolineato visivamente da una alta luccicante struttura tubolare in acciaio (progettata dall’arch. Gianni Vincenti; essa sembra compositivamente richiamare l’estetica di Richard Rogers) la quale oltre ad essere un segnale evidente per la sua altezza (superiore cioè a quella dello stesso bastione cui si addossa) diventa non solo l’elemento su cui appendere gli stendardi informativi delle iniziative museali ma anche il sostegno di una pensilina vetrata posta immediatamente sopra e davanti alla porta. Quest’ultima inoltre è protetta da un cancello metallico a fasce verticali il cui disegno ripropone la sezione di un’anfora antica. Al di là della porta, attraversato lo spesso muro difensivo (circa m. 3), si accede in uno spazio a tutta altezza coperto a volta e dalla planimetria che rievoca quella di una Z e cioè con un corpo centrale e due trasversali alle estremità. Le indagini archeologiche hanno permesso di mettere in evidenza strati appartenenti ad epoche più antiche e fisicamente più profonde. Oltre alle mura vi sono anche i resti di una piccola chiesa (triabsidata a tre navate con pilastri, lunghezza circa m. 16.50) databile ad un periodo fra la fine del X° e la metà del secolo successivo. Di questo edificio inglobato nel bastione e nelle mura è sopravvissuto gran parte del pavimento. La soluzione progettuale di un percorso sollevato sui resti diventava quindi una necessità e lo è stato fino a diventare una sorta di filo conduttore dell’intervento, chiaro palinsesto cioè su cui montare, esattamente come si fa con un film, i fotogrammi di un racconto fatto sia dai tempi percettivi molteplici che dai tempi diversi dei reperti. Il percorso nelle sue articolazioni si è addossato alle pareti laterali interne del bastione lasciando in particolare piena visibilità alla navata maggiore della piccola chiesa. I dettagli costruttivi sono estremamente importanti in questi casi e così, particolarmente apprezzabile, è stata la scelta di avere adottato, quale parapetti del percorso, trasparenti doppie doppie lastre vitree; tali elementi, nel formare tutto il parapetto, sono affiancati ma non congiunti (fra l’uno e l’altro è lasciato infatti uno spazio vuoto di circa 1 centimetro). Leggerezza e trasparenza visiva sono elementi fondamentali per un ambiente che naturalmente ha solo tre fonti di luci principali: una porta di modeste dimensioni sul lato di questo spazio planimetricamente tortuoso che conduce all’area archeologica del convento francescano, un’altra apertura sul lato verso il giardino del convento benedettino ed infine ,nella parte centrale del percorso, in alto, una lunga finestra a nastro, appositamente progettata, che con le forme curve della sua sezione accompagna la luce. Quest’ultima quindi fluisce all’interno e con continuità procede attraverso le riflessioni sulle pareti (mantenuti i colori naturali dei materiali costruttivi, scialbature a base di calce e tufina), quelle verticali e quelle delle copertura a volta; la luce riflessa, soprattutto, si dilata e dirada in alcuni punti fino a cedere il passo a zone di penombra quasi assoluta come nel caso della piccola stanza a ridosso della porta più piccola verso l’area archeologica di San Pietro. Qui in particolare il fondo è occupato da tre piccole teche in cui sono esposti altrettanti elmi bronzei del V°- IV° secolo a. C., ed un’ampia superfice del pavimento si trasforma in un piano vetrato aprendosi allo sguardo e verso la parte più profonda degli scavi con i tratti di mura risalenti al V° – III° secolo a. C. La vertigine del tempo, quella fisiologica, prima ancora che mentale, è qui diventata reale. Uno dei più raffinati architetti contemporanei, Franco Purini, in una sua lezione definì le scale come “il patetico sostituto delle ali”; il concetto sembra applicabile anche a questo caso a proposito del pavimento vetrato e (a tratti) dello stesso percorso dove, naturalmente l’aggettivo riservato alle scale dovrebbe essere inteso nel senso più antico e denso di qualcosa che genera pathos appunto. La luce naturale è l’elemento vincente in questo progetto e di essa se ne possono valutare anzi vivere le molte declinazioni: quelle generate dai riflessi delle pareti curve in alto oppure quelle prodotte dai muri stratificati con tessiture ora regolari ora meno. Se fossimo in un tema letterario verrebbe da evocare l’elogio dell’imperfezione e della differenza. Tale ragionamento o chiave di lettura lo si potrebbe applicare anche al caso del percorso sollevato che guida il visitatore. C’è un aspetto spesso sottovalutato dai progettisti ed è quello della “noia”. Esattamente quella che può scaturire dal fatto che in una esperienza accade proprio ciò che ci aspettiamo e che in un libro potrebbe spingere il lettore a saltare pagine e pagine. La “noia” però può essere trasformata in una risorsa, in una sorta di trappola per il lettore stesso se opportunamente calibrata. Ed allora nel caso di un’architettura come quella di questo bastione, l’apertura dello spazio interno che mette quasi tutto alla portata d’occhio il percorso sollevato non genera sorprese (se non forse per il lato più nascosto verso il convento francescano), questa consapevolezza produce una riduzione della percezione dello spazio tanto da abbassare la soglia di attenzione dell’osservatore. Questa distrazione però è la piccola trappola nella quale egli cade dando per scontato che il pavimento in quell’istante sotto i suoi piedi sia solido e rassicurante alla vista ovvero opaco. Su questo piano ha giocato quindi il progettista nel momento in cui ha ideato il percorso sollevato realizzandolo ora in legno (di rovere dal colore naturale e caldo) ora con parti vetrate che, così come si diceva, suonano diversamente sotto i passi e sotto il ritmo del visitatore; diversa è naturalmente anche la riflessione della luce. Proprio questo elemento diventa la chiave di lettura anche di un altro aspetto del restauro, quello che potremmo identificare con la componente narrativa. E’ con la luce che si guida il visitatore offrendogli l’immagine parlante di un gentiluomo del Rinascimento che spiega le fasi salienti costruttive dello spazio del bastione e poi ancora è sempre la luce (proiettata dall’alto delle volte) ad essere usata come strumento per ricomporre ed evidenziare parti architettoniche come ad esempio i pavimenti dell’antica chiesa. Se si dovesse, in conclusione, descrivere in modo sintetico l’attività progettuale che c’è dietro questo restauro si potrebbe parlare di un atteggiamento non rinunciatario. In sostanza non c’è, come sempre più spesso accade invece, una progettazione a catalogo quella cioè in cui si acquistano da un catalogo, appunto, pezzi architettonici già pronti come potrebbero essere le passerelle a griglia color grigio topo oppure i cancelli lanceolati dal sapore disneyano applicandoli in un luogo così come in ogni altro e con ciò rinunciando alla specificità del progetto e dello spazio. Chiaramente tale operazione ha dei costi ma non possiamo più nascondere dietro la scusa economica la scarsa capacità progettuale di molti restauratori. Il caso del bastione di Santa Scolastica è invece un esempio in positivo in questo senso.
Si ringraziano: la dott.ssa Eugenia Vantagiato, Direttore del Segretariato Regionale del MiBACT per la Puglia; l’architetto F. Longobardi.
Bibl.: D. Cimidale – M. R. Depalo – F. Longobardi – F. Radina (a cura di); La ricerca archeologica nell’area di san Pietro e nel cantiere di restauro del monastero di Santa Scolastica; Bari: Adda; 2016.
Fabio A. Grasso